Una sorta di carro funebre verdognolo girerà presto per l’Italia. Si tratta del pullman del Signor Veltroni. Sopra, giganteggia una scritta. “L’Italia viva. Si può fare”. Ora, dal momento che l’Italia è per gran parte morta, e le parti morte stanno trascinando nella rovina anche quelle vive – si comportano come ogni cancrena che si rispetti – dobbiamo immaginare che quel “viva” non sia un attributo, ma una forma verbale all’ottativo. Ovvero: “Fate sopravvivere l’Italia, per pietà!”, “Tenetela in vita!”. “L’Italia viva, muoiano pure tutti gli italiani!”. Quel che maggiormente mi irrita, nella sinistra, è che una volta essa difendeva, o credeva di difendere davvero i deboli, ora invece è diventata il baluardo dei privilegiati, degli 3 milioni e mezzo di “statali”, di un complesso sistema castale che va dal basso fino alla punta della piramide, parlamentari, grandi funzionari di Stato, insomma, i ladri “in folio” che consentono a tanti ladruncoli “in sedicesimo” di depredare gli italiani, e tra questi in primis i veneti, che lavorano davvero, senza appartenere a casta alcuna. Non tutti naturalmente, ma molti.
Ora, la prima parte del novenario, “l’Italia viva”, prelude alla seconda: “Si può fare”. Ora, certo che si può fare, per somma gioia di tutti i veltroni, finché i popoli tutti aggiogati ad un potere centrale che li sta riducendo alla fame non si solleveranno, e costituiranno ognuno la propria repubblica, il proprio Stato, e riconquisteranno la propria sovranità. Scrivo queste righe il 16 febbraio 2008 e domani il Cossovo si darà l’indipendenza. Ora, si può discutere con infiniti argomenti – quando li si conosce e non si parla a vanvera come taluni patrioti veneti fanno, eppure dovrebbero aver cara la libertà dei popoli! – sulla legittimità di tale nuovo Stato, ma indiscutibilmente i cossovari mostrano un coraggio notevole, hanno un nemico che si chiama Putin. Anche se hanno un amico che si chiama Bush. E tuttavia loro stanno proseguendo in un cammino che inevitabilmente porterà all’autodeterminazione. Anche se non sarà agevole. E noi ci facciamo spaventare dal Veltrone, dal Berluscone? Sembrano minacciosi? Putin lo sembra, e lo è. Ora, è chiara la povertà oggettiva di argomenti dell’una e dell’altra parte. Di Berlusc-three (“one” e “two” li abbiamo già visti) ho già detto. Significativo nel programma del veltro romano, l’accento sulla condanna della pedofilia. Ora, certamente tutti concordiamo che si tratti di delitto orrendo. Ma, porvi l’accento, significa solo una cosa: cercare consenso, con miserabile enfasi retorica e stornare l’attenzione dalla vera questione: che lo Stato italiano compie un regolare, massiccio furto legalizzato ai danni dei suoi cittadini, per mantenere come sceicchi pochi a danno di molti, in nome dell’abominevole concetto di “redistribuzione”, e che è uno Stato i cui gangli vitali sono morti, o funzionano malissimo: l’università, la giustizia, la sanità, l’ordine pubblico, non c’è niente che funzioni. Certo, i pedofili sono molto cattivi: ma non sono il vero problema, come il vero problema non è l’aborto, non è la presenza delle truppe italiane in Afghanistan e Iraq, sono questioni sì gravi, ma che toccano solo una parte limitatissima dei cittadini: la questione è quella di fondo.
Il crimine osceno che si perpetua ogni giorno e di cui nessuno parla: perché chi dovrebbe parlarne sono coloro che lo perpetrano.
Uno Stato malato trascina nell’agonia i suoi cittadini, sottrae loro progressivamente alimento vitale, la metà di quanto producono e più: questo è il crimine, che sembra concepito da quella divinità balorda che morendo faceva soffrire indicibilmente l’umanità, teorizzata dal filosofo tedesco Philipp Mainlaender, discepolo di Schopenhauer, a fine Ottocento. Un filosofo minore, forse un filosofastro, ma che ha avuto la gioia postuma di veder realizzato – nell’Italia dal dopoguerra in poi – il suo terribile sistema.
Riconquistiamo la nostra libertà, prima possibile. Viviamo cento giorni da leone di San Marco, dopo averne vissuto mille da pecora sabauda. Sperando che quei giorni da leone che ci aspettano siano molti più di cento, di mille, di diecimila.
Paolo Bernardini
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