Tra le obiezioni che vengono rivolte contro l’indipendenza della Venetia, una riguarda l’idea di “cittadinanza” e appartenenza. Ovvero, detto semplicemente, molti si pongono questa domanda “Cosa accadrà a me in quanto non veneto, non veneziano, nella non della ‘Venetia’ quando il Veneto, ovvero la Venetia, saranno diventati indipendenti?”. Domanda legittima. Se la pongono di certo, drammaticamente, i serbi rimasti in Cossovo, se la porranno i romeni che rimarranno in Transilvania. “Sarò espulso?”, “Sarò discriminato nei miei diritti?”, “Verrò in qualche modo emarginato?”. Ora, occorre dire che nei luoghi del mondo che ho citato, la questione si pone in modo radicale: vi sono differenze religiose, culturali, e linguistiche radicali tra serbi e albanesi, aldilà delle differenze “etniche”. E anche tra ungheresi e romeni, aldilà del fatto che parlano due lingue radicalmente differenti. Dal momento in cui la genetica ha spazzato via la distinzione degli uomini a partire da geni originariamente differenti, è difficile parlare di “etnie”, e si rischia solo di venire fraintesi, solo alcuni leghisti si ostinano a parlare di “razza padana”, ma forse si riferiscono ai bovini, quelli di “razza frisona” peraltro sono allevati proprio in Lombardia, e danno ottima carne. Nel caso della Venetia, la questione dell’appartenenza è assai più flessibile; in qualche modo, cittadini della Venetia saranno, prima di tutto, coloro che nella Venetia si trovano hic et nunc a vivere, aldilà di ogni appartenenza differente. Poiché la gran parte (non tutti) di coloro che qui vivono sono anche gli stessi che contribuiscono alla prosperità del territorio, e che contribuiranno a questa, o ancora, finalmente, che vi hanno contribuito e che ora godono di una meritata pensione. In questo è racchiuso il concetto di “cittadinanza inclusiva”, e anche, se vogliamo, di “nazione”. Come prima del Settecento e dell’Ottocento violentemente nazionalistici, nel Medioevo felice delle città-stato, si intendeva: “natio quia natus”. In qualche modo, si tratta di qualcosa di mediano tra un ideale comunitario “aperto” e una “nazione” intesa come “plebiscito di tutti i giorni” di cui parlava Ernest Renan. Dunque, non sarà richiesta nessuna “limpieza de sangre” ai cittadini della Venetia libera, né d’altra parte si potrebbe loro chiedere, ché il sangue su tutto il territorio dell’Italia geografica, la penisola serrata dalle Alpi e le isole maggiori e minori, è sempre stato assai misto, a partire da prima dell’Impero romano. E dunque la “razza” biologica appare sempre più come una finzione, e nessuno di noi si sogna di andarla a ricuperare, per fortuna. Tuttavia, se nel concetto di “popolo” includiamo elementi linguistici, culturali, e di legame col territorio, elementi in qualche modo acquisibili da chiunque lo desideri, e condivida i valori fondamentali del luogo – il vero “genius loci” – ebbene questi elementi identitari esistono ed è giusto riscoprirli, e porli al centro di una nuova costruzione nazionale, appunto, e non nazionalistica. Ed è giusto che tutti coloro che si riconosco nel territorio della Venetia e ora come ora ci vivono, così come coloro che vorranno venirci per vivere onestamente, siano accolti in questa cittadinanza, e, anche se appare una locuzione quasi paradossale, “nazione inclusiva”. Ed è anche giusto che coloro che maggiormente rappresentano questa “comunità”, e che incarnano allo stesso tempo il miglior legame con il passato, e la più produttiva appartenenza al presente (non senza una visione del futuro) ne siano i futuri reggitori. La Svizzera è un ottimo modello di stato multietnico, multi-nazionale, multilinguistico, ma con una comune idea, e sentimento di “appartenenza” che ha del mirabile, e dell’unico, come ha messo in luce nei suoi lavori lo storico inglese Jonathan Steinberg. Uno splendido dramma di Goethe, l’Egmont, poi musicato da Beethoven, mette bene in luce, nelle parole di un patriota dei Paesi Bassi che combatte contro l’oppressione dell’Impero absburgico – la guerra di indipendenza delle Provincie Unite, a fine Cinquecento, è un esempio bellissimo di ricupero di una identità, e della libertà politica, che è stato anche preludio per una ricchezza immane, che ha reso la c.d. Olanda il paese più ricco dell’Europa del Seicento, mentre il Belgio dovrà attendere il 1830 per liberarsi dell’Impero – il significato dell’autogoverno. Dice infatti Egmont al suo futuro carnefice, il terribile duca d’Alba (che porta morte e distruzione e non ottimi tartufi bianchi, come piacerebbe pensare):
“Per questo desidera il cittadino conservare i suoi antichi statuti, essere governato da uomini del suo paese: perché egli sa come sarà condotto, perché dal loro disinteresse, può sperare interessamento alla sua sorte”
e poco dopo:
“E altrettanto naturale è che il cittadino voglia essere governato da chi ha comune con lui la nascita e l’educazione, e con lui si è formato lo stesso concetto del giusto e dell’ingiusto, e che egli può riguardare come un fratello”
Non si tratta di una idea biologica di fratellanza, quanto di una idea flessibile, culturale soprattutto, una condivisione di “valori”, potremmo dire – utilizzando un concetto vilmente abusato in questa patetica pianura, anzi in codesto deserto elettorale italiano 2008 (campagna è nome troppo nobile) – che si ha a partire, però, da una comune appartenenza, anche economica, anche produttiva, al “suolo”.
Certamente, come rileva il duca d’Alba, uomo crudele ma non stupido, anche il governo avito può portare ad ingiustizia: ma forse ogni governo le porta, ogni Stato le comporta. Tuttavia, un governo di uomini del posto, il più possibile interessati al benessere del loro territorio, smorza in qualche modo gli effetti negativi dei possibili abusi, rende appunto, dice Egmont, più “tollerabile” anche l’ingiustizia che si annida in ogni Stato. Intollerabile, invece, è che vi siano “uomini nuovi” ancora una volta provenienti da lontano, mandati a casa di Egmont ad arricchirsi un’altra volta, alle spalle di cittadini con cui non condividono nulla, né dal punto di vista culturale, né dal punto di vista del legame con il territorio. Egmont fu profeta per tante situazioni. Dopo il 1797, nella Venetia continuamente furono mandati, da Austriaci, Francesi, poi di nuovo Austriaci, poi Piemontesi – della stessa genìa del Duca d’Alba, dunque – governatori dotati di “rigida, audace, illimitata avidità”. E questo è intollerabile, ormai, dopo duecentoundici anni. Il paradosso di Egmont è che, nella necessità per ora di avere uno Stato, fin quando tutto il mondo non sarà un solo libero mercato e tutto quanto sarà privato, è meglio, e molto, averlo fatto delle proprie genti, più oneste, per definizione, ma anche più controllabili. Ma ora che è chiaro che la cittadinanza inclusiva garantisce un’appartenenza, per usare un altro concetto caro a Goethe, elettiva – io, genovese, credo di avere un’ “affinità elettiva”, ovvero di scelta, con la Venetia, e molti altri la hanno, senza esser nati qui -–a maggior ragione vale il monito di Egmont. Che, forse occorre ricordarlo, in chiusura, diede la propria vita per la libertà.
Paolo Bernardini
(anticipazione dei contenuti dell’intervento di domenica 6 aprile 2008)
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[…] Inauguriamo con questo articolo la sezione de “I Classici”, all’interno della quale verranno pubblicati alcuni celebri articoli del pensiero indipendentista veneto moderno che meritano di essere riletti. Iniziamo con uno scritto di Paolo Bernardini, originalmente pubblicato su http://www.pnvneto.org. […]