Favola di Nerio de Carlo
Una nota giornalista era stata invitata a tenere una conferenza presso il Centro Culturale. Oggetto dell’incontro era la causa che determinò il crollo dell’Impero di Roma, senza peraltro spiegare se si trattasse della città dei Cesari oppure dei Vespasiani.
L’unica cosa da aggiungere a quanto già noto sembrava una frase tratta dal libro di Ben Pastor “Il portatore d’acqua”. L’opera conteneva infatti una spiegazione insolita:”Ci sono tanti occhi azzurri in giro”. Ecco, questa frase sembrava un chiarimento originale e fondato per la fine dell’Impero. Così fu infatti.
Dopo la relazione e le usuali congratulazioni ci si dimenticò di parlare del compenso e la giornalista poteva ritornare da dove era venuta oppure, già che si trovava, fare una breve visita al proprio paese natio nella stessa provincia. Prevalse la nostalgia e fu scelta la seconda possibilità.
C’era qualcosa d’insolito nei negozi. Sembrava che si parlasse un’altra lingua. Le vetrine, specchio impietoso sia per chi sta all’interno sia per quanti sostano all’esterno, rivelavano commesse dal tallone levriero e in parte non esenti da cellulite. Molte portavano una specie di sopravveste di lana ampia e magnifica, indicata per nascondere le abbondanze. I maschi indossavano invece la clamide, cioè un mantello affibbiato al collo o sull’omero destro. I pochi apprendisti vestivano l’alicula, una tunica corta avviluppante le spalle. Tutti indumenti che rievocavano l’antichità romana che, nemmeno a fare a posta, era stata l’oggetto della conferenza. Stonavano in generale le moderne calzature al posto delle più adeguate “caligae”: come jeans sotto un abito da sposa, ecco.
Da sempre veniva inculcata nella gente della città l’idea di un’ascendenza capitolina tanto improbabile quanto ridicola. Tutte le motivazioni storiche sconsigliavano l’emulazione (che non è la semplice imitazione del mulo), ma l’insistenza gradita al potere trovò un sicuro pretesto che dimostrava un’ignara ingenuità dei percorsi della storia: la pubblicità
La giornalista entrò nel negozio che esibiva ancora la vecchia insegna “Generi Coloniali”. La bottega si trovava vicino al recinto degli edredoni, o “anatre dal piumino”, appartenenti al più noto genere delle “Oche del Campidoglio”.
“Comandi !”, disse la proprietaria paludata con una toga matronale.
“Non comando proprio nulla. Ci mancherebbe altro, specialmente in un contesto che richiama alla mente come perfino l’Onnipotente abbia creato la vittoria quale schiava di Roma.- Desidererei, piuttosto, un piccolo astuccio per riporre un minuscolo cacciavite necessario a stringere la montatura dei miei occhiali”.
“Mi faccia penzare ‘nu poco. Onde stà? Ecco, signò, questo è un agariolo”, rispose la negoziante con una improbabile pronuncia romanesca che sarebbe certamente dispiaciuta al poeta Trilussa, ma che alludeva a una scarsa propensione per il lavoro.
Già, l’agariòl, involucro ligneo per aghi: parola rimasta indietro nel tempo che ci raggiunge.
L’atmosfera non era solo commerciale, ma di costume. Fuori una nonnina apostrofava il nipotino per come indossava la maglietta:”Un vedi questo! Ha messo su il davanti per il didietro!”-
La giornalista si chiedeva come mai si fosse giunti a tanto. In altre regioni una tale conformazione mentale con tanto di rinuncia allo spirito di appartenenza, di cui il linguaggio è testimone, non si registra affatto. E pensava:”Non si accorgono che non saranno mai quello che anelano a diventare. Inoltre non sono più nemmeno quelli che erano. Non sono più nessuno. Sembrano monumenti all’ibrido. Una svalutazione, una finzione permanente, infine.”
Man mano che la giornalista procedeva verso la stazione affioravano altre considerazioni. All’adeguamento psichico, per esempio, non sembrava corrispondere, nonostante gli sforzi, la conformazione fisica: le corde vocali e quindi la pronuncia restano quelle che sono, con delusione dei trasformisti. La risposta “comandi”, ancorché meno usata, rimane annidata nella psiche quale traccia di un’inspiegabile subalternità. In altre parole la carne sarebbe magari forte, ma lo spirito debole. Poiché ciò contrasterebbe tuttavia con il messaggio evangelico, un popolo devoto non dovrebbe comportarsi a questo modo.
In ogni caso il linguaggio che ne risultava, segno di un’ incompiuta metamorfosi traversale, appariva grottesco. Esso non corrispondeva alla struttura e al perimetro del pensiero, ma piuttosto al pigolìo della gramigna. L’Intacchinamento linguistico diffuso non sarebbe piaciuto nemmeno a Giacomo Leopardi che pure, nonostante tutto, si era lasciato sfuggire la sgrammaticatura “il zio” nello Zibaldone. In conclusione non si poteva provare per questo stato di cose una stima maggiore di quanto esso meritasse.
Le autorità vedevano di buon occhio la nuova proclività giustamente rappresentata soprattutto dai personaggi vestiti da schiavi, e non da poeti, romani. Le burocrazie nutrivano così la loro preda per poter fare un banchetto più ricco, come magistralmente si espresse Paulo Coelho nell’opera “Monte cinque”, in cui si narra come il protagonista si fosse trasformato, con la fantasia, in un poco piacevole corvo. Oh, i corvi! Ce n’erano due, indifferenti e boriosi, solitamente stazionanti tra il Foro (più appropriato sarebbe chiamarlo foruncolo) e il tempio delle Vestali appositamente ricostruito vicino all’allevamento degli ippocampi. Per il resto il mitico santuario era comunque deserto. Forse per mancanza di materia prima.
E’ vero che per uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. Ciò non significa però che tutti i pettini non vengano al nodo, o qualcosa di simile come dice il proverbio. Rimane legittimo (o meglio leggittimo per adeguarsi alla nuova tendenza traslocata peraltro con successo in un esame di gongorzo pubblico) chiedersi come andrà a finire.
La giornalista guardava la gente e pensava a voce alta:”Finirà come l’Impero Romano diamine. Ci sono tanti occhi azzurri in giro”.
La notte di San Lorenzo era imminente e gli abitanti delle stelle cadenti aspettavano che la terra precipitasse, per esprimere a loro volta e finalmente il proprio desiderio: essere e non apparire.
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