IT ricorda il dio morente di un filosofo tedesco dell’Ottocento, poco noto (giustamente, ché non valeva molto), tale Philipp Mainländer. Allievo spirituale di Schopenhauer, sosteneva costui, repleto di pessimismo cosmico, che l’universo tutto era retto da un dio in agonia, ma che non si decideva a morire. Ebbene, il mondo, con tutto il suo male, non era che il riflesso, e la proiezione di questo dio male in arnese, ed una buona soluzione per giocare d’anticipo, rispetto al male che nolente o volente tale dio ci imponeva, era di suicidarsi. Anche perché tale dio era incapace di suicidarsi lui stesso, doveva continuare a patire (e far patire noi). Ora, IT è esattamente come quel dio. Negli spasmi dell’agonia riesce perfino a storpiare e deturpare le sue stesse icone, ad esempio Eugenio Montale, fiero alfiere dell’italianità, anche se poeta immenso, di certo. Così, che dolore per un genovese come me, che in gioventù ha perfino diretto una rivista letteraria che si chiamava “L’Erbaspada” in onore di Riviere, e del vate ligustico (“bastano pochi stocchi d’erbaspada penduli da un ciglione”), vedere che perfino al nostro Nobel più nobile, a modo suo, viene riservato il tritacarne dell’ignoranza di Stato dei servi di IT; che non viene neppur risparmiato all’inglese (ma non diceva la Moratti: “inglese, informatica, impresa!”) del test per gli istituti tecnici, e neppure al greco di quello per i classici (saltano dei pezzi della versione). Ora, la “Maturità” era uno dei grandi riti di passaggio da bimbi di IT a servi di IT, un rito di passaggio unico perché al contrario del servizio militare riguardava anche le donne. Insomma, dopo i sudati studi superiori – dove ci veniva imposto di studiare nobili lingue morte, ma non quelle locali, tipo genovese e veneziano, perché queste le aveva uccise IT ed erano per ciò stesso ignobili – la “Maturità” ci rendeva maturi appunto per il mondo falso e bugiardo di IT, crescevano sui classici per scontrarci subito dopo con i sessantottini dell’università e del mondo, con le caste chiuse dei possidenti, con l’università già allora prossima allo sfascio in cui vivacchia ora (simile anch’essa al dio del filosofo di cui sopra). Niente di più lontano da Erodoto e Properzio. Ma la cosa più incredibile, e allo stesso tempo più credibile, è che ormai la macchina IT è talmente logora che riesce appunto a storpiare perfino le sue icone, qualche funzionario sottopagato e forse senza computer si è preso la briga di alterare il destinatario della poesia di Montale: tanto, avrà pensato, “chi se ne frega”, cornuti e mazziati dall’inizio, cosa importa se i figli di IT maturano nel falso. Anzi, così almeno al falso si abituano, grande illuminazione, già da maturandi: grande intuizione, degna di un discepolo di Karl Kraus. E’ tutto falso, IT è tutta una montagna di menzogne, che ormai non si nascondono neanche più ipocritamente sotto un velo di “correttezza” formale: un Montale vero, un testo greco corretto. Direbbe un altro poeta ligure, Edoardo Sanguineti: questa è “pena, pena piena, anzi, pietà”. Fino a quando ancora gli itagliati sopporteranno? Certamente, fino a quando non soffriranno la fame, forse. La fame di sapere e verità la soffrono in pochi per ora, ma non pochissimi. Quanti maturandi si sono sentiti umiliati per queste orribili gaffe? Probabilmente tanti. Questo ridicolo, vergognoso e dispendioso rito di IT dovrebbe essere cancellato. Ma per farlo occorre cancellare IT, così di riti vergognosi e ridicoli se ne cancellerebbero parecchi. E le persone riacquisterebbe se non altro un pochino di dignità. E soprattutto poi tanta ricchezza, anche intellettuale. Le meste vestali di IT, tetre e squallide, brutte e stranite, compiono ormai i loro riti in modo estremamente maldestro. Nessuno le brucia vive però. Al massimo, i Ministri Gelmini e Brunetta minacceranno di licenziarle in tronco. Ma poi non succederà. In fondo, chi se ne frega di Montale. Forse frega a me e noi, forse vale la pena di andare a Treviso e vedere iscritta su una lapide, sul fiume che attraverso la città, la poesia che egli dedicò in qualche modo a quella città e a tutto il Veneto che amava, da Asolo a Venezia.
Paolo Bernardini
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