Il fenomeno delle proteste studentesche, conosciuto come “onda anomala”, si è svolto quasi senza rumore a Padova e Venezia, con processioni tranquille. Fuori luogo gli interventi dei cittadini offesi dal fatto che i giovani protestassero invece che “andàr lavoràr”, forse nostalgici del Veneto “lavòra e tàxi”; non è certo tacendo sui tagli suicidi alla ricerca e allo studio che riusciremo a uscire dalla crisi, ma piuttosto alimentando quei settori considerati indispensabili allo sviluppo di uno Stato: autosufficienza alimentare ed energetica, ricerca tecnologica e scientifica. Si è rivelato più costruttivo un altro tipo di critica a volte banalizzato, ridotto a un ritornello da ripetere a mo’ di esorcismo: quanti alunni, insegnanti e parenti – contro o pro che fossero – hanno letto il testo del decreto Gelmini? Se una domanda simile può diventare argomento valido nel dibattito pubblico, vuol dire che l’Italia è incapace di tutelare i diritti di educazione, espressione e informazione del cittadino; ingenuamente, molti si sono mobilitati contro un testo che non hanno letto, ma che questo sia potuto passare come decreto legislativo, senza dibattito parlamentare, è un fatto barbaro.
Così, nel dicembre 2008, gli studenti non hanno ancora gli strumenti adatti a condurre una critica efficace, mentre si esaurisce la spinta data dall’indignazione. L’impressione è che l’attuale governo italiano stia cercando di uccidere la scuola pubblica a favore di quella privata, cui sono stati recentemente condonati centoventi milioni di euro senza alcuna prova di consenso popolare, a pochi giorni dall’esito tragico del crollo di un soffitto in un istituto pubblico. Nonostante le migliaia di cittadini che hanno manifestato – e continuano a manifestare – il proprio dissenso con lezioni in piazza, occupazioni, marce funebri, notti bianche, processioni sul ponte littorio e lungo le strade, per i servizi statali si prevedono invece otto miliardi di tagli in tre anni.
Con queste premesse non possiamo provare rancore verso quegli universitri che il 27 novembre si sono introdotti nella sala dell’Archivio Antico del Palazzo del Bo, a Padova, impedendo il convegno intitolato “L’università in trasformazione”, nel quale sarebbero dovuti intervenire il rettore della Normale di Pisa e il presidente dei Giovani industriali di Padova. Questi studenti, iscritti alla Facoltà di Scienze Politiche, avrebbero occupato il locale affermando che un imprenditore non può esprimersi nell’ateneo, atto poco corretto ma segno chiaro della frustrazione provata nel vedersi scavalcati da baroni, imprenditori e politici; se neppure il dissenso di massa può portare la classe dirigente a trattare, quali strumenti rimangono ai giovani per affermarsi? Il Gazzettino li ha descritti come “fascisti” e “repressivi”, suggerendo inopportuni paralleli con i regimi del Novecento, quasi la sospensione dell’incontro fosse stata imposta a colpi di manganello da parte della polizia e non con le grida di persone che sono state imbavagliate dalle istituzioni. Agitarsi, gridare e imbavagliare sotto atti da biasimare, ma la gente comune si sta adeguando alla classe dirigente italiana, che prospera su decreti emanati per cavalcare l’emotività del popolo, roboanti dichiarazioni, necrofilia a reti unificate, promesse abortite, scandali giornalistici, soubrette da rivista pornografica e così via.
Siamo disgustati dalla noncuranza italiana, dall’indolenza nella quale la classe dirigente vuole affogare la capacità critica e la consapevolezza civica dei cittadini. Oggi non possiamo fare altro che augurarci la nascita di un movimento di protesta mosso dal bisogno di un cambiamento concreto, costruito sulla capacità di pianificare strategie e proporre soluzioni efficaci, sul dialogo pluralista, sulla manifestazione pacifica e sul radicamento territoriale, contro l’agitazione scomposta, la disinformazione, le grida incorerenti e gli altri mezzucci della politica burlesca “made in Italy”.
Emanuele Marian
Ufficio Stampa PNV
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