headermask image

header image

Le menzogne sulla prima guerra mondiale. Una poesia e qualche riflessione.

Zelanti assessori, col soldo pubblico, ovvero il nostro, distribuiscono a studenti d’ogni ordine e grado pacchetti informativi sulla prima guerra mondiale. Naturalmente, tessendone l’elogio. Perché essa, o meglio la sua mistificazione, è come è noto uno dei pilastri del mito di ITA, una delle sue ragion d’essere. Una guerra di aggressione e non di difesa, costò la vita a 600.000 “italiani”, col solo fine di “liberarne” 400.000, i quali poi tradizionalmente hanno fatto il loro meglio per tornare sotto l’Austria. Certamente, codesti assessori sono pappagal, li bene ammaestrati, dai burattinai di ITA, e ripetono coscienziosamente quanto generazioni di storici asserviti al falso, per due soldi, hanno scritto e riscritto. E allora sono lieto di mandare nella rete, questo strumento insigne di libertà di pensiero, qualche mia cosa sulla prima guerra mondiale. Perché codesti infimi pappagalli sono in realtà dei corvi, degni della fiaba nera di E. A. Poe: non cantano filastrocche, ripetono nenie di morte conquistandosi un posto all’inferno, ma ancor prima tutto il disprezzo di chi, ateo, cattolico, agnostico, la vita umana e il suo supremo rispetto tiene in conto altissimo. Non la tennero in nessun conto coloro che quel massacro osceno condussero.

E poi una poesia. La scrissi in occasione della visita del presidente di ITA nella Venetia nel 2004. Si chiamava Ciampi, l’esponente più alto della bassa schiera dei colonizzatori del tempo. Nessuno volle pubblicarla. Ma qui è. Non è una poesia per bambini, e non ne raccomando la lettura a chi ama le liriche fughe, non è L’infinito di Leopardi, insomma: anche se infinito fu il dolore che essa racconta. I tenutari di ITA dal 1915 al 1918 mandarono a morire dei bambini, quella guerra fu un abominevole infanticidio di stato.

F. e M. sono due soldati semplici, i nomi si possono prendere tra i tanti Mario, i tanti Federico, che si trovano tra i 600.000 morti italiani per quel massacro privo di ogni senso di coscritti che neanche sapevano per cosa combattevano, che per la vergogna di tutti noi qualcuno ha chiamato “Grande Guerra”. Gli altri F. e M. sono Francesco Baracca, il “bianco airone”, e Manfred von Richtofen, il “barone rosso”. Il primo morì sul Montello, colpito da un proiettile giunto dal suolo. Aveva 30 anni. Il secondo, vicino ad Amiens. Aveva 26 anni. Forse abbattuto da un pilota canadese, forse anch’egli per un proiettile sparato da terra. Avevano sentito parlare l’uno dell’altro e speravano di potersi scontrare in duello. Ricorda da qualche parte l’anziano Elias Canetti, a proposito dell’ebbrezza data dalla comune (per le élite) lettura di Nietzsche, negli anni precedenti la prima guerra mondiale: “Quanti gli individui che Nietzsche ha colmato della voglia del pericolo! Poi i pericoli sono arrivati davvero, e quelli sono miserevolmente crollati”. Questi piloti, provenienti in gran parte dalla cavalleria, amavano mitragliare dall’alto i soldati nemici, si divertivano un mondo in questa caccia. Indubbiamente, fecero grandi stragi in questo modo. L’onore del duello lo riservavano ai loro pari. Non so chi abbia dato loro il nome di eroi. C’è sempre qualche errore all’origine delle peggiori disgrazie.

Paolo Bernardini

Quattro piccole scene dalla Grande Guerra

I.

E’ un rivo di orina
Di merda. E’ uno strato
Di ghiaccio. Il freddo
Lo ferma ma non ferma
Il suo odore. E’ ghiaccio
Striato di sangue, di vomiti
Vi scivolano sopra
Topi.
E’ la trincea.
Qui, F., ad esempio
Si piega su M. Gli mette
Dentro le dita.
Lo masturba, in silenzio, piano.
Viene. E godono insieme di quel poco
Di caldo, un dito su per il culo.
Lo sperma tra i pantaloni. Godono
Per quel caldo breve, sopra ogni cosa.
Il cielo è scuro, piove.
M. piange. F., anche.
Il tenente poi lancia il grido: “All’assalto!”
Gli arti ghiacciati, i piedi a pezzi
Ci faranno alzare.
Due passi fuori, il vento, la pioggia sul viso
Le gambe incerte. Le mani
Piagate
Innestano la baionetta.
Due passi ancora.

II.

Nulla equivale
L’ebbrezza di un volo:
Del bianco airone,
Di un rosso sparviero
Che s’alza rombando
Dal suolo.
E giunge sopra le vette
Sui campi.
Sfiora le nubi, le cime
Più ardite.
Scende e si inebria e risale.
F. attende M. M, F.
“Come un vespro sulla terra
Arda la vostra virtù nel morire, lo
Spirito vostro.
Altrimenti sarete morti male”.
Così parlò il Maestro nostro
E noi suoi seguaci spariamo e voliamo.
Voliamo, e spariamo.
Il nostro sogno è che un giorno
Ci incontreremo.
Che l’ali lievi dei falchi
Rechino l’artiglio fatale.
Il nostro sogno è morire
Al tempo giusto, né prima, né dopo.
Ogni lancio è slancio di vita
Fino a quello mortale.

III.

Due passi. Al terzo
Il vento porta un confetto
Di piombo.
Cadeste senza un lamento.
M., prima.
“Sei così alto, sei bello”.
Per le vostre nozze fu questo
Il regalo.
M. è più basso ed il colpo
Della mitraglia lo prende alla fronte
Muore, in meno di un attimo è andato.
F., è più alto. Per questo
Ora invidia l’amico.
Per la prima volta è un vantaggio, vedi,
La bassa statura.
Tua madre non te lo diceva.
Poi guarda le proprie viscere, sparse per terra.
Le budella piene di merda, di cibo raffermo
D’acqua ghiacciata, di sperma, di paura, di vita.
Ci metterà un giorno a morire.
Cresce l’invidia per quel cervello, era l’amico, che vede
Ad un passo, a pezzi, da lui.
Cresce l’invidia con il dolore.
Le urla. Lo stupore, il sangue a fiotti che esce
E ghiaccia, allontana, con strazio
La fine.
Dura più di una messa
…Morire.

IV.

“E’ bella, è bella la guerra,
Morir per la patria, una gioia.
Ma la gioia più grande è morire”.
Non si incontrarono, F. e M.

E’ giugno al Montello, un proiettile
Sale dal suolo. Il veivolo brucia.
F. l’accoglie nel viso. L’airone bianco
Richiude così le sue ali.
E’ un giorno di giugno dell’ultimo anno
Della guerra grande, il grande
Massacro.

“Quant’era bello sparare
Sul gregge di esseri umani
Dall’alto, come l’assiro
Che canta in forma di lupo
Il grande romantico inglese…”

M.
M. se ne era già andato.
La decade terza d’aprile
Sui cieli di Francia
Colpito
Da un altro eroe dell’aria
Un altro “asso nemico”.

Muor giovane chi agli dei è caro.
Sarà: e sarà anche vero, se sol lo si crede.

Ci rimangono i brandelli di carne
Di tutti e quattro:
Morta e rossa giù al suolo:
A vederla si dubiti pure
Che si tratti di carne di uomo.

Di chi è morto senza neppure sparare
Di chi è morto da eroe del volo.

E vennero poi altri avvoltoi,
Con gli stessi che uccisero loro
Canteranno le odi a giovinezza
All’ebbrezza del morire
Per i loro tricolori:
Erano i loro affari più vili
Spacciati per “patria” ed “onore”.

8 Novembre 2004.

If you liked my post, feel free to subscribe to my rss feeds