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A PROPOSITO DI UNITA’ D’ITALIA…STATO E NAZIONE

di Nerio de Carlo

Il 17 marzo 2011 sarà celebrata la nascita dello Stato Italiano, cioè di un fatto politico ed istituzionale e pertanto soggetto alle mutazioni politiche ed istituzionali che la storia produce. Non è la prima volta che si festeggia. Nel 1966 ci fu il 100° anniversario dell’annessione del Veneto.

Le date sono esatte: 1866 – 1866, un secolo. Fu allora emesso un francobollo commemorativo da £. 40.- Se la seconda guerra fosse terminata in un modo diverso da come avvenne, sarebbero senz’altro, per esempio, coinvolte nei festeggiamenti del 2011 anche Somalia, Libia, Etiopia, Istria, isole greche…, per le quali i 150 anni non risultano in alcun modo (1870, 1898, 1911, 1935…: aggiungendo a queste date 150, risulterebbero 2020, 2048, 2061, 2085…, ma mai 2011).

La storia ha invece disposto diversamente e il problema per le ex colonie non si pone. Diverso è il caso del Veneto, del Lazio e del Trentino/Südtirol. I 150 anni dall’annessione all’Italia cadrebbero rispettivamente nel 2016, 2020 e 2069. Nel 2011 non ci dovrebbe quindi essere alcun coinvolgimento, se la matematica non è un’opinione. Se nel 2011 si festeggia i 150 anni trascorsi dalla data di un avvenimento, questo fatto deve essere accaduto per forza nel 1861.

L’appartenenza propedeutica delle attuali regioni al contesto politico italiano è insostenibile sia geograficamente sia storicamente. Alcuni territori non appartengono alla penisola, ma sono continentali a tutti gli effetti: i popoli di acqua dolce non appartengono a una penisola!- Da sempre alcune regioni furono inoltre monarchie dinastiche (Regno delle Due Sicilie, Regno di Sardegna, Ducati e Granducati) o elettive (Regno della Chiesa), mentre la Serenissima fu sempre una repubblica. Il Veneto appartenne poi al Regno Lombardo – Veneto, ma si trattava di una realtà asburgica come quella di Vienna, Cracovia e Budapest, non italiana. Poiché l’ipotesi statale non regge, si tenta di supplire con l’affermazione che l’Italia esisteva molto tempo prima come Nazione, cioè come fatto di cultura. Si pesca nei secoli XII e XIII, e anche prima, per fissare una unitaria realtà di coscienza e di lingua nella letteratura. Sia chiaro: il principio dovrebbe riguardare soltanto l’unità d’Italia, ignorando altre simili situazioni (Alsaziani, Lorenesi, Catalani, territori contigui a Belgio, Olanda e Danimarca, Sudtirolesi, Sloveni del Friuli…- La lingua sarebbe il cemento della nazione italiana. L’indicazione dei critici italiani sembrerebbe a prima vista incontestabile, ma così non è. San Francesco, il misterioso Cielo (Ciullo) d’Alcamo, il Dolce Stil Novo… sono segmenti degni del massimo rispetto, ma non evidenziavano coesione e convergenza di pensiero in tutto lo Stato. I contemporanei Poeti provenzali, provenienti dalla regione tra la Durenza, il Rodano, le Alpi e il mare, erano altrettanto determinanti nonché pionieri della lirica in volgare. Il loro fu un successo europeo. Lo prova l’antologia provenzale-veneta raccolta per Alberico da Romano da Uc de Sain-Circ, contenente 1045 poesie trovadoriche. Sordello da Goito, pure contiguo ai da Romano, realizzò pregevoli composizioni in lingua provenzale. Importanti furono Percivalle Doria, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo, Rambertino Buvatelli, Bartolomeo Zorzi. La Scuola siciliana contava su Jacopo da Lentini, Stefano Protonotaro, Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Ronaldo d’Aquino, Giacomo Pugliese. La scuola non li nomina mai, vero?- Forse perché non scrissero in toscano, ma in vernacolo. Verna era infatti lo schiavo nato da una schiava nella casa del padrone.- Qualora fossero inoltre pervenuti documenti sui trovatori Obizzo Bigolino e Ferrarino Trogni, rispettivamente trevigiano e ferrarese, disporremmo forse di importanti elementi su quella che era chiamata “Ars nova”, sviluppatasi poi a Firenze soltanto nella seconda metà del 1300. Gaia (1270 – 1311) e Beatrice da Camino promossero la poesia provenzale nelle corti caminesi. Cangrande della Scala (1291 – 1329) fece altrettanto presso la corte scaligera. E si potrebbe continuare. L’inclusione della poesia provenzale nella letteratura italiana, magari considerandola quale catalizzatore della nazione italiana, equivarrebbe a sostenere che quell’arte fu contemporaneamente comune a due diverse nazionalità: francese e italiana. Una contraddizione in termini. Un poco più a nord si sviluppava la grande produzione poetica di Walther von der Vogelweide (1168 – 1228) e Oswald von Wolkenstein (1377 – 1445), destinata a espandersi fino ad Aquileia e in Germania. Ma entrambi scrissero soltanto in medio alto tedesco!- Ancora un poco verso oriente troviamo in Friuli Tommasino dei Cerchiari (1216 – 1238), ma anche questo poeta scrisse esclusivamente in medio alto tedesco. Si noti come sia stato possibile includere successivamente le rispettive regioni nello Stato, ma queste rimarrebbero comunque escluse dalla configurazione nazionale italiana. Una bella confusione. Una lingua comune, veicolo della letteratura, fu in realtà inesistente. Le parole sono infatti contenitori di cultura che sommano quasi tutte le loro origini. L’anima consiste nelle parole e nel come esse vengono pronunciate, nel loro suono e voce. La lingua parlata non è una funzione, ma un organo dell’essere umano.

Oltre alle parlate neoromanze soffuse di longobardismi e attualmente confinate nell’oralità, erano floridi nel Medioevo l’occitano, il ladino dolomitico e orientale friulano (che non hanno ancora esaurito la loro vitalità), le parlate walser, mochene, cimbre…- Se ora qualcuna di queste lingue si scrive nuovamente, si tratta di una neo-lingua, cioè di una letteratura non menzognera. La lingua toscana si è poi imposta in tempi recenti, ma essa non era altro che il dialetto di Firenze (cui appena possibile non fu risparmiato il destino di passare da Capitale a semplice Prefettura), come in Francia il francese era il dialetto di Parigi (conservata come Capitale). Nel 1860, fuori di Toscana, meno del 6% parlava italiano (Tullio De Mauro). Le differenze linguistiche in Italia esistono ancora. Si passa con disinvoltura dalle incomprensibili “convergenze parallele”, agli ineffabili cartelli sulle porte di alcune presidenze scolastiche o di ristoranti durante la pausa di mezzogiorno:“Il Preside è fuori posto” e “Chiuso per pranzo”, a seconda dei casi.. Non si spiegherebbe altrimenti come i film “Gomorra” e “Bagheria” siano stati provvisti di sottotitoli. Notevole risultato di unità interna operata dalla lingua costituisce intanto anche l’affermazione pubblica della vincitrice di un importante concorso nazionale di bellezza:” Ho fatto un zogno”. Pazienza. Il proverbio dice che val più la natica che la grammatica, o qualcosa del genere. La ricerca di origini nazionali basate sulla lingua fin dal 1200, magari integrata da una innaturale prospettiva di omogeneizzazione delle corde vocali, appare pertanto colma di incertezze. In ogni caso i popoli non avevano alcuna coscienza della categoria culturale, cui i loro linguaggi, magari intrisi di espressioni adenoidi, appartenevano. Tanto varrebbe addurre il pretesto di una religione comune per estendere a estranei i tratti di uguaglianza che non posseggono, ma che potrebbero diventare politicamente utili a qualcuno. I sostenitori di certe crune senza ago sembrerebbero vecchi zii bisognosi di aggiornamento.

Platone sostiene infatti, nella parte finale del “Fedro”, che il vero mezzo di comunicazione non è lo scritto, bensì l’oralità. La scrittura può ospitare l’la comunicazione orale. Non sembri esagerato pensare che, se “il linguaggio è una finestra per analizzare idee che hanno radici più profonde del linguaggio stesso”, cioè precedenti perfino alle proclamazioni degli Stati, una finestra rappresenta spesso anche la migliore via di fuga per uscire da situazioni di disagio. Le celebrazioni del 2011 possono avere luogo, se esistono i finanziamenti, ma sarebbe necessario che anche la scuola, come parte della stampa ha fatto, si mobilitasse per chiarire alla gioventù alcuni aspetti:

  • La proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861 fu effettuata in lingua francese e il pretesto di una base linguistica comune viene pertanto a cadere;
  • Vittorio Emanuele II entrò a Milano nel 1859 con a fianco l’Imperatore Napoleone III e con alle spalle l’esercito francese in assetto di guerra; – Giuseppe Garibaldi conquistò il Regno Borbonico e dichiarò già nel 1860 Salemi prima capitale d’Italia con il sostegno delle navi inglesi, con il denaro della Massoneria internazionale e grazie alla corruzione dei comandanti avversari: tutti ingredienti non italiani;
  • Il Veneto fu dato come regalo dai Francesi all’Italia nel 1866. L’Austria rispettava gli accordi internazionali intercorsi, ma rifiutava la cessione diretta della regione agli sconfitti. Le truppe imperiali avevano infatti battuto le truppe italiane (che soltanto dal 1879 si sarebbero poi chiamate “Regio Esercito”) sia a Custoza sia a Lissa. Il comportamento austriaco fu quindi corretto.

Se la Francia non fosse stata costretta dalla minaccia prussiana a ritirare le truppe destinate alla difesa di Roma nel 1870, la breccia di Porta Pia non ci sarebbe stata. All’età di 150 anni un Paese dovrebbe essere abbastanza adulto per sapere come sia nato.

Nerio de Carlo

[trato da “Il Piave”]

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