So bene che in piena campagna elettorale una divagazione storica, apparentemente solo erudita, potrebbe risultare fuor di luogo, e chiedo venia, innanzi tutto, se occupo un pochino del nostro spazio virtuale con qualche considerazione, forse estemporanea, forse no. In due giorni mi è capitato di incontrarmi, in luoghi diversi e lontani, con due assaggi di Settecento veneto. La mostra a Rovigo su Bortoloni, Piazzetta e Tiepolo, a Palazzo Roverella, e, oggi, a Milano, una rappresentazione al Piccolo, con uno stupefacente Soleri ottuagenario, di Arlecchino servitore di due padroni. Siamo, nel primo caso, nella prima metà del Settecento, nel secondo, mi si perdoni l’inevitabile bisticcio, nella seconda. In entrambi i casi, molte sarebbero le considerazioni, diciamo così, critiche. Qualche inesattezza filologica per Alessia Vedova, curatrice della mostra, e qualche sbandata di troppo nella commedia dell’arte, sul filo dell’estrema tolleranza goldoniana, per l’altrimenti mirabile Soleri. Ora, vulgata vuole che il secolo XVIII sia quello della “decadenza” veneziana, prodromo sicuro alla caduta. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Ponderosi tomi, come quello di Jean Georgelin, del 1978, bene hanno mostrato come l’economia veneta fosse ancora fiorente, ed in ogni caso non in crisi se confrontata con quelle degli altri liberi stati italiani, o della Lombardia austriaca, o della Toscana lorenese. Ma l’ambito artistico-letterario rivela, se mai ce ne fosse bisogno – ché del Settecento sono Prato della Valle, e Villa Pisani, e infiniti altri manufatti che certo di decadenza non parlano – quanto ancora vivace, ricco, ed aperto fosse il panorama, e cosmopolita senz’altro, della Venezia settecentesca. La mostra, innanzi tutto. Se non v’aleggiasse uno Sgarbi bidimensionale ripetuto all’infinito, con la sua pur nobile retorica della grandezza di Bortoloni e Tiepolo coevi ma di differente fortuna, e la sua pur innegabile capacità di leggere talune epoche artistiche, la mostra sarebbe ancor più godibile. Appare in video nella sala dedicata a Sebastiano Ricci: questi grande artista, a fronte di un gradevole critico; questi assassino, Sgarbi bricconcello. Anche solo uno dei capolavori esposti, la “Giuditta e Oloferne” di Giulia Lama – chiamarsi Lama e dipingere una Giuditta è cosa da sola degna d’una visita, e di qualche pensiero – varrebbe una sosta diuturna. Ché si sprigiona, su uno sfondo nero, ancora in tutto e per tutto barocco, la potenza di un gesto che sta per compiersi, la decapitazione. Infatti il generale assiro dorme, giovane e bello, e Giuditta prega Dio di darle la forza. Nessuna drammaticità, se non per il paralogismo implicito: ché sappiamo come andrà a finire. Ma le opere, non numerose ma splendide, illustrano una vitalità singolare, uno sfumarsi luminoso del barocco tetro, in colorismo e virtuosismo vivaci. Le figure dipinte con suprema ironia da Bortoloni potrebbero ben essere, in capo ad un paio di generazioni, proprio personaggi goldoniani. Beffarde, stupite, scocciate, irriverenti seppure sante e beate. Ma una cosa colpisce, quanto fosse cosmopolita Venezia, quanto fosse unita, ricca e allegra l’Italia “divisa, povera, e triste” dei manuali di storia scritti un tanto a riga da taluni miei colleghi storici, quelli che, pieni d’invidia per le signorine discinte nel chiaroscuro notturno dei viali, ne hanno preso bellamente il posto. Così Bortoloni della provincia di Rovigo dipinge, e cosa dipinge, l’intera volta della cupola dell’Abbazia di Vicoforte, per i Savoia, e tra i suoi committenti vi sono numerosi nobili lombardi, della Lombardia austriaca che perse vigore ed identità proprio quando fu annessa, nell’ircocervo del 1815, il “Lombardo-veneto”, alla Venetia. Come savoiardi sono i fratelli simpatici e arditi, Beatrice e Federico – simpatica notazione personale, i nomi dei miei due nipotini – nella commedia di Goldoni. Insomma, un Settecento veneziano illustrato da pittori francesi e geni di “provincia”, un Settecento che vide rinascere proprio, siamo nel 1739, quella meravigliosa Accademia dei Concordi che ospita la mostra. Un Settecento multilinguistico, vivace, salace e sapiente. L’errore della Serenissima fu, ne sono sempre più convinto, uno solo: la neutralità, scelta nel 1700 e mai revocata, non ostante l’accorato appello di senatori illuminati all’ultimo doge, Lodovico Manin. S’era accorto, qualcuno, del problema che avrebbe rappresentato la degenerazione tirannica e violenta e armata della Rivoluzione francese. Sicuri di vivere nella pace e tutelati dall’alleanza con l’Impero, i veneziani, ancorché senz’altro più poveri che non nel Cinquecento, non erano così decadenti come li si descrive, nel secolo dei Lumi. E vedere Goldoni, e ammirare Piazzetta e Tiepolo, e sicuramente Bortoloni, ci porta in un sogno cosmopolita.
L’ITA ”unita” è la vera falce dei popoli, quando non li uccide li separa. Crea l’odio verso il professore “terrone”, fomenta il campanilismo sterile, l’ignoranza diffusa. I Savoia non avevano nessuna riluttanza ad utilizzare un artista veneto. Goldoni scherzava sulle differenze tra sudditi sabaudi e sudditi della Serenissima. Qui, quando non ci siano in ballo problemi di “immagine”, per cui si fanno venire architetti “illustri” e stranieri a disegnare monumenti a 9/11 a Padova o ponti sul Canal Grande per mero scopo di immagine (in questo modo umiliando i locali che avrebbero potuto di certo far meglio, e con minor spesa), si vive nel mondo dell’assoluta provincia. Gli assessori alla cultura, gli unici poveri in spirito che non avranno nessun regno dei cieli, promuovono amici, amici degli amici, amanti, amanti degli amanti, parenti degli amici delle amanti. Mi ricordo i miei disperati tentativi di organizzare una mostra a Padova di una giovanissima, bravissima fotografa emiliana, che aveva documentato la vita dei nomadi Saharawi. Per caso avevo visto a Parma la sua mostra, e pensavo fosse degna di essere portata a Padova. Di solito la domanda era: Ma chi ti manda? Di che partito sei? E lei di che partito è? Quale Grande Critico – ovvero grande paraculo – ne garantisce la “qualità”? Io sono una persona semplice e dicevo che secondo me era solo brava. Ma te la sei portata a letto? Di solito questa era l’ultima domanda. Questo il mondo della cultura di ITA, in generale. Ripugnante come questo paese, che sarà presto l’unico paese della cuccagna dove tutti ( o quasi ) faranno la fame. Il “belpaese”, l’unico formaggio che provoca la cellulite alle idee e fa dimagrire l’immaginazione. Per questo, sabato a Rovigo, e oggi a Milano, mi sono beato del bel Settecento veneziano. Les neiges d’antan.
Ora arriva però la nostra primavera d’indipendenza.
E tutto questo, ed in modo ancor più corrusco, tornerà presto a splendere.
Paolo L. Bernardini
Presidente emerito del PNV
If you liked my post, feel free to subscribe to my rss feeds