Suona in genere un poco retorico, ma lo studio del passato aiuta assai spesso la costruzione del presente, soprattutto quando questa coincide con la ri-costruzione, ancorché molto parziale, del passato stesso. Dalla mia amata Moneglia, piccola località sulla riviera di Levante, scrivo queste righe dopo aver letto un pregevole libro di Robin Harris, studioso inglese, dal titolo Storia e vita di Ragusa. Lo ha pubblicato, con significativo sforzo editoriale, un piccolo e benemerito editore di Treviso, Santi Quaranta. Un editore attento alla storia dei piccoli stati, che in contemporanea a questo volume ha dato alla luce anche un bellissimo libro sulla Baviera, forse il più antico stato d’Europa. La fine della piccola repubblica di Ragusa è una delle tante tragedie, per i piccoli Stati appunto, che si compiono nell’età napoleonica. Noi spesso ci concentriamo, ovviamente, su Venezia e Genova: ma pensiamo anche alle Province Unite, o appunto a Ragusa, che aveva una storia millenaria di libertà, cui pose fine il generale francese Marmont il 31 gennaio 1808. Fu la fine per il glorioso vessillo di San Biagio – l’equivalente del nostro San Marco – e non ostante ripetuti tentativi, la repubblica di Ragusa non rinacque più. Ora, i francesi erano ben consapevoli di quanto andavano facendo, con un significativo mix di spirito mafioso (vi dobbiamo proteggere) e arroganza data dall’essere, al momento, i più forti. Ecco quanto scriveva Talleyrand, il ministro degli esteri di Napoleone, a Raymond, console francese che si sarebbe insediato a Ragusa, il 23 maggio 1807 (Napoleone era allora al culmine del potere in Europa: dal 1808 inizierà il suo inesorabile declino, a partire dalle insorgenze spagnole):
“Sua Maestà prima di ricevere le ultime informazioni, era indeciso in merito a come e se occupare Dubrovnik, sebbene avesse il diritto di proteggere il suo territorio e di aiutare uno stato debole a resistere all’attacco dei russi. Ma vedendo che Dubrovnik si è accordata con questi, Sua Maestà deve vendicare l’offesa che gli è stata inflitta. Dubrovnik, negoziando con i russi, ha dimostrato di non considerarsi legata da alcun vincolo di vassallaggio alla Porta Ottomana, né di riconoscerla. Il problema del rapporto tra questi due stati, di cui parlerò nelle prossime istruzioni, è da ritenersi chiuso. Una Dubrovnik indipendente deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Ha determinato da sola il suo destino e ha rivolto le armi di Sua Maestà contro se stessa.
Dubrovnik è esistita per un migliaio di anni. Una storia così lunga può lasciarsi dietro molti ricordi, ma il controllo di Sua Maestà può conferire maggior sicurezza e maggiori speranze. La situazione in Europa è cambiata. La maggior parte degli Stati più deboli è caduta. Dubrovnik, isolata in mezzo alle grandi potenze, non può più usare i vecchi sistemi per controllare il suo territorio e i suoi commerci” (dal libro citato, p. 383).
Ora, questa lettera è di estrema importanza, perché indica bene quali erano i rapporti di forza nell’Europa interamente trasformata dalla creazione di potenti stati centralistici tra metà Seicento e fine Settecento, e dalla caduta di quell’immensa struttura, questa sì federale, che era stato il Sacro Romano Impero. Esisteva forse un solo caso di mantenimento dell’indipendenza, ed era – con mille minacce – quello della Svizzera: perché la Svizzera? Ancora resta un mistero, tant’è vero che un libro bellissimo, dello storico dell’Università di Pennsylvania Jonathan Steinberg, si intitola proprio Why Switzerland?. Talleyrand indica bene il percorso, violento e totalitario, dell’Ottocento europeo: la nascita di grandi stati che con la promessa della “protezione” ingoiavano i piccoli, in un contesto dove peraltro era vero quanto intuiva Cavour: solo attraverso la creazione di Leviatani più o meno stabili, processo oltretutto che doveva essere rafforzato da alleanze (l’Italia entra nella Triplice con il suo vecchio nemico, l’Austria, giusto per tradire l’alleanza, con grande stile, due giorni prima di entrare in guerra contro i proprio ex-alleati, il 24 maggio 1915) si poteva garantire una certa “sicurezza” ai cittadini, se non altro quella di non essere assoggettati ad altri poteri a loro estranei (quello sabaudo era un potere straniero, ma la finzione ideologica lo fece credere “italiano”, inventando l’italianità, prima di tutto).
Ora, la vicenda dei grandi stati ottocenteschi è nota: assetati di potere, conquistarono tutto il mondo, con imprese coloniali di una violenza inaudita, in cui ITA si distinse per ferocia, e per l’uso sistematico di gas per annientare le popolazioni africane. Non paghi di questo, scatenarono le loro forze in due guerre mondiali, che sono in realtà due guerre civili europee. Se mai dunque la creazione di grandi stati fu una necessità, in una situazione di costante minaccia di guerra e di invasione, in un Ottocento secolo turpe per nazionalismo, ateismo, ed estrema glorificazione dello Stato come nuovo Dio, ora viviamo, per dire così, sull’onda lunga di queste creazioni: cessato il loro motivo storico di esistere, continuano a sopravvivere. Per fortuna nessuno ci chiede più di morire al fronte, e neppure di servire obbligatoriamente come soldati. Non ci chiedono neanche una sottoscrizione ideologica: per ora nessuno mi ha chiesto di giurare fedeltà a Berlusconi, come fece Mussolini ai professori universitari italiani (undici rifiutarono). Non c’è per ora l’abolizione della libertà di stampa. Ci chiedono gran parte del frutto del nostro lavoro: ovvero il minimo indispensabile, per gli apparati di Stato, per sopravvivere. E tanti, troppi, ancora credono che il grande Stato dia protezione e assicuri il benessere. La protezione, posto che ce ne sia bisogno, è opera della NATO, il benessere (che sta diventando sempre più mera sopravvivenza) ce lo garantiamo con il nostro lavoro, e con una delle poche cose buone dell’Unione Europea: il mercato libero e comune.
Se sopravvivono, tali grandi stati, dipende anche molto dalla fisica, ovvero da quel fenomeno che si chiama moto inerziale. E che coinvolge con egual colpevolezza due forze loro malgrado conniventi: gli Stati, appunto, e i milioni di cittadini. Il futuro dell’Europa, e del mondo, è quello dei piccoli Stati, e la storia dopo il 1945 ampiamente lo dimostra. Verrà anche per noi, il momento di sbarazzarci dell’ingombrante eredità del Leviatanino ITA, un’eredità costosissima? Certamente. Non sappiamo quando, e francamente neppur come. Per quel che ci compete, possiamo solo continuare a combattere. Con i mezzi che abbiamo a disposizione: la fondatezza delle idee. Purtroppo le idee, giuste o sbagliate, tardano ad affermarsi. Marx – e siamo nel regno delle idee sbagliate – era un topone di biblioteca nella British Library. Il secolo successivo ha visto il disgraziato trionfo delle sue idee, abbastanza ma non completamente distorte. Speriamo di non dover aspettare un secolo!
Paolo L. Bernardini
Presidente emerito
Partito Nazionale Veneto
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