Per chi ha avuto esperienza di vita in altri luoghi diversi da quello di nascita, pare che immancabilmente arrivi prima o poi il momento della nostalgia per la sua “terra natale”.
Sentivo che anche chi, a dispetto delle penose condizioni del luogo di origine da cui era letteralmente fuggito, arrivi prima o poi questo momento.
A volte chi ha la fortuna ritorna, e trova pace con sé stesso, altre volte l’esperienza dura poco e riemergono le ragioni che lo avevano fatto fuggire. Altre ancora il biglietto è risultato di sola andata, e questa mania viene lentamente trasferita ai figli, che vivono in un paese che in realtà è il loro ma con un mito di un’altro luogo: quello dei/del genitore.
Un mito che non verrà mai capito, poiché per conoscere un luogo occorre viverci e farci delle esperienze, e non per un giorno. Per esempio, per chi vive da dipendente e magari ha una posizione importante e su posti pubblici, in Italia può anche star bene. Un paese sostanzialmente comunista infatti funziona relativamente bene con chi altro non fa che seguire le direttive di qualcun’altro, per definizione, e risulta in una categoria protetta. Poi magari arriva il giorno che serve una cura medica, o qualche altro servizio fondato sul monopolio di stato, ed allora improvvisamente si apre la voragine, ma fino ad allora tutto può apparire liscio.
Ma da dove arriva questo sentimento di nostalgia? Io ovviamente non posso dare risposte, però ho cercato di farmene un’idea, e provo condividerla.
Mi sono chiesto infatti cosa davvero resta ad una persona a distanza di anni nei suoi ricordi, tale da farli riemergere. Sicuramente sono le esperienze forti, e quelle che restano nella nostra mente come legami affettivi. Sono cioè quegli elementi che ci hanno permesso di formarci come persone e ci hanno permesso di sopravvivere alla legge della natura. L’incidente in cucina, il morso di un cane a cui si era data troppa confidenza, lo schiaffo del genitore in risposta ad un azzardo, la leggerezza nel gestire un lavoro che ci ha procurato un licenziamento, il calore e l’affetto della madre, l’aiuto ricevuto quando si stava male, il primo bacio, il sentimento per la ragazza/il ragazzo del terzo banco…
Molti di questi eventi sono rimasti come una impronta indelebile nella nostra mente. Ma se quelli dolorosi ci hanno servito per evitare di fare lo stesso errore, sono quelli affettivi ovvero quelli in cui abbiamo ricevuto amore e amicizia, che tendiamo a preferire come ricordo.
Inoltre sappiamo che le esperienze di relazione sociale infantili e adolescenziali sono quelle che restano maggiormente impresse nella nostra mente. Dopo i venti, venticinque anni infatti iniziano a restare di più le relazioni intrafamigliari: la moglie, i figli; mentre tendono a sfumare quelle extrafamigliari.
I nostri veri amici in fondo sono sempre quelli che ci siamo fatti a 15 anni.
Sono loro che ricorderemo e ci toccheranno di più quando leggeremo l’epigrafe di qualcuno di loro.
Dunque, se questi sono gli aspetti affettivi più forti, io credo che la nostalgia di un luogo altro non sia che l’evocazione che quel luogo crea nella nostra mente richiamando quegli affetti.
E al di là delle persone infatti non sarei capace di individuare un sentimento di nostalgia per i luoghi, di per sé. E’ chiaro che anche un luogo ci può attrarre e può darci delle emozioni. Ma più che le emozioni del luogo in sé è ciò che evoca che ci procura nostalgia.
Se è così, allora anche chi si sposta da una città ad un’altra è un emigrato.
Ed in effetti, a ben guardare, io ho avuto questa sensazione. Certo l’essermi spostato di pochi chilometri non crea particolari nostalgie. Ma io avevo un po’ rotto con il mio paese d’infanzia, e non ci ero tornato che a Natale, a casa di mia madre, e raramente per salutare qualche parente.
Ed è vero, a distanza di anni un luogo evoca amici perduti, che ritornando si trovano di nuovo e sembra di essere tornati in famiglia, di essere a casa, la nostra vera casa.
A me (chissà quali erano i motivi di quella rottura) era capitato un po’ questo.
Resta il ricordo, i luoghi che a distanza di anni evocano quei ricordi lontani nel tempo che furono della nostra adolescenza.
E’ una cosa simile la nostalgia dell’emigrato? Di nuovo, io non lo so. Ma cerco di capire.
Lo dico perché se le cose stanno così, cioè se sono i ricordi di adolescenza che ci tengono legati ad un luogo, allora non c’è molta speranza. Se viviamo sempre nello stesso posto, con il passare del tempo ci assuefiamo al fatto che perderemo di vista chi era stato nostro amico, e magari oggi si comporta in modo tuttaltro che amico. Passata la sbornia del ritorno, pian piano si scopre che il passato ha lasciato molta polvere.
Un luogo evoca i ricordi. Anche i luoghi di vacanza dovrebbero, ed infatti talvolta evocano in noi della nostalgia. Tuttavia in quel caso non siamo continuamente morsi dalla nostalgia di quel luogo di vacanza. La ragione è evidente, siamo consapevoli che quello era un luogo di passaggio, non era il luogo della nostra vita, ma la nostra vita che vi era passata.
Invece siamo convinti che quel luogo in cui la nostra vita si era sviluppata, ebbene quello sia il nostro vero posto.
Che differenza passa tra vivere in un posto e considerare lo stesso posto il luogo della nostra vita? Razionalmente non c’è differenza, poiché la nostra vita è tale a prescindere dal luogo.
Ma forse è questo il problema dell’emigrato. Il suo problema è che dei suoi sentimenti non può fare razionalità, e allora gli resta l’illusione che quel luogo sia stato quello della sua vita, e nessun altro. Non certo quello in cui, per bene che si viva, ha scelto di insediarsi.
In realtà c’è dell’altro. C’è la insoddisfazione. Ci si è sposati con un luogo per necessità, ma non per amore. Non è come quando si sceglie la nuova casa, per costruire la nuova vita.
No. E’ scegliere un appartamento conveniente, ma emotivamente sconveniente e di cui saremo sempre insoddisfatti.
In questo modo non si costruisce la propria vita, che resta sospesa in attesa del ritorno, o nella speranza di esso. Non ci si impegna sul nuovo posto, perché non lo si riconosce come la terra promessa, ma solo una terra di mezzo.
E resta il mito.
Claudio G.
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Le radici sono dove siamo nati e cresciuti. Quelle radici non le tagli. Quelle radici sono elastici con un capo legato al campanile e l’altro intorno alla nostra vita. Più ti allontani più gli elastici si tirano, finché diventano fini come corde di violino. Ma non si rompono. Quando sono tirati al massimo passa il vento della memoria, e questi elastici mandano suoni di ricordi.
A sentirli pensi al paese e diventi debole. Molli le mani da dove ti tenevi aggrapato e gli elastici, con uno strappo, ti trascinano a casa.
“Perché non ti hanno mosso prima i tuoi elastici?” Domandò Santo ingrugnito.
Non erano tirati abbastanza, non suonava il vento della memoria. Adesso sono tirati al massimo, passa quel vento e suonano. Suonano musica di casa. E io torno a casa.
(“il canto delle manére” – M. Corona)
Si Andrea, io ho cercato di comprendere quali sono le ragioni, andando un po’ oltre la semplice sensazione, ma cercando di capire quale sia l’origine di certi sentimenti.
Capirlo permette anche di capire il perché a volte (se non spesso) accade che ci si aggrappa ad un eco di una cosa che non esiste più.
Inoltre permette di comprendere quali sono le ragioni profonde che, una volta conosciute, ci possono mettere il cuore in pace perché l’emozione è sempre dall’altra parte della razionalità.
Bellissime riflessioni. Grazie Claudio, e Andrea.
Sono da 8 anni emigrata e sento che i miei elastici iniziano ad essere molto – troppo – tesi, dolorosamente tesi.
Mi continuo a chiedere fino a che punto la nostalgia sia razionale, visto che ci sono ragioni precise per emigrare.
A rendere le cose piu’ difficili c’e’ il fatto che quando si torna, si e’ praticamente in vacanza, e i problemi quotidiani che hanno spinto ad emigrare non sono li’, non pesano. Per cui l’idealizzazione si perpetua ogni volta che si torna per una breve vacanza.