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Qualcosa su Cavour

di Paolo Bernardini

Mi sono trovato giovedì 6 maggio in una affollata Sala Paladin del Comune di Padova a presentare un libro su Cavour, di una gentile signora patavina, Annabella Cabiati (edizioni Anordest, Treviso). Si tratta di una biografia illustrata, molto gradevole, curata e scritta evidentemente per un grande pubblico. Una forma di storia “popolare”, che generalmente gli storici di mestiere accusano di mancare di scientificità. Salvo poi essere in imbarazzo quando richiesti di precisare quali siano i criteri scientifici della loro disciplina.

Naturalmente ero circondato da sostenitori accaniti del progetto cavouriano, sicuramente molti in buona fede, come l’anziano ma vispissimo Giuliano Lenci, un uomo che ha combattutto contro i nazifascisti, e che pur essendo toscano è legato al Veneto da decenni, e indubitabilmente, ancorché statalista, ancorché “italianista”, lo ama di amore sincero.

Cavour è indubbiamente il creatore unico e solo, l’inventore, giusto per usare le parole del libro fondamentale di Roberto Martucci, “L’invenzione dell’Italia unita”, del Regno d’Italia. 150 anni fa. Qualcosa di simile, ma anche di del tutto diverso da ITA, anche se il DNA di uno stato difficilmente si altera, anche se a distanza di 7 generazioni e mezza. E questo mi consente qualche riflessione di carattere generale.

In qualche modo, occorre sempre confrontarsi con la Storia, ma, ugualmente, è sempre bene lasciare che i morti requiescant in pace. Trascinarli nel presente, nel bene e nel male, è come costringere fantasmi a dialogare coi vivi. Loro hanno il vantaggio di essere morti, ma seppur tornassero in vita, con noi il dialogo sarebbe poco: appartenere ad un tempo passato è come essere abitanti di una terra straniera terribilmente lontana, molto spesso. E David Lowenthal lo ha messo nel titolo del suo bel libro di storia della storiografia: il passato è una terra straniera. Culturalmente, fisicamente, mentalmente diversi da noi, se li riportassimo in vita, se resuscitassero, saremmo in infinito disagio a confrontarci con loro, con Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele II. Ma anche con Lodovico e Daniele Manin. In politica, vale, parzialmente, la celebre affermazione di Ludwig Wittgenstein: “Che mi importa del passato? Io sono il primo e l’unico”, con una correzione: ci sono anche le generazioni a venire.

In ogni caso, Cavour è figura controversa, difficile, aspra, di sicuro fascino. La sua giovinezza libertina, il suo ambiguo rapporto nei confronti della religione, la sua mancanza di rispetto verso il re (sono sempre più convinto che Cavour, di temperamento oscillante tra il sanguigno e il malinconico e forse davvero ciclotimico, sia morto relativamente giovane per tutta la bile provocata dalle liti furiose con Vittorio Emanuele II), lo hanno in qualche modo relegato ai margini rispetto a figure il cui peso, nella costruzione del Regno, è decisamente minore: Garibaldi, Mazzini, e lo stesso re sabaudo. Inoltre i suoi progetti federalistici, della giovinezza e più o meno strumentalmente fino a Plombières nel 1858, sono stati accortamente obliati. Insomma, alla gioventù italica che doveva crescere con mitologie nazional-popolari di violenza e sangue, un giornalista, burocrate, già libertino, scapolo, senza figli, ricco di rendite e per di più di nobile casato, ossessionato dal lavoro diplomatico, basso e con la pancetta, morto di malaria e per vita sregolata, decisamente borghese nei comportamenti – l’aristocrazia “de robe”, insomma, di vera tradizione francese, ma non italiana –, perfino vicino a tratti a ideali federalistici, non doveva andar troppo giù. Meno male che c’era Garibaldi, meno male che c’era Vittorio Emanuele II, meno male che i due cavallerescamente, da veri guerrieri e capi, si sono incontrati e stretti la mano a Teano.

Proprio prestanti, a dir lo vero, non erano neanche loro. Ma la statuaria dell’Italia unita, già sulla via di trasformarsi in ITA, li trasformava in veri campioni di “physical prowess”, in Eroi. La statuaria di Cavour ce lo mostra invece com’era, quasi quasi disvelando il segreto di Pulcinella del “Risorgimento”. Garibaldi e il Re risorgono in forma di atleti greci, con il fisico di Cassius Clay a 25 anni, ma Cavour non risorge, rimane com’è, forse si lima solo la pancetta, si infoltiscono i capelli radi e grigi, gli si taglia una barbetta caprina che amò farsi crescere sotto il mente negli ultimi anni di vita. Ma a Cavour, nel bene ma soprattutto nel male, si deve tutto. A Cavour e ai suoi fidi, Costantino Nigra, e la contessa di Castiglione, e numerosi altri.

Sono infatti sempre più convinto che l’azione della giovanissima Virginia Oldoini, tra le imperiali coltri, sia stata pari per effetto di quelle cavouriane nelle corti d’Europa.

Tra corti e coltri, nasce l’Italia.

Certo, non dal popolo, come si è voluto troppo spesso far credere. C’è stata una triste miniserie televisiva recentemente, su Virginia, ma sarebbe bello riscoprire il film che un regista di Istrana, Flavio Calzavara, le dedicò nel 1942. E consiglio di leggere il libro “La dame de coeur”, di Isaure de Saint Pierre, pubblicato da Albin Michel nel 2006. (Singolarmente, il bel titolo è stato ripreso per un libro su Carla Bruni del 2008 – che sia un agente segreto di Berlusconi come Virginia lo era di Cavour??).

L’azione erotica di Virginia – e forse di Nigra con l’imperatrice Eugenia (nata de Montijo), l’ultima sovrana di Francia, bellissima donna anche lei – insomma questo quartetto semisadiano franco-piemontese, con qualcosa di toscano e di Grenada, furono infinitamente più importanti, per l’invenzione del Regno, ad esempio, delle trame mazziniane. Ma Mazzini è in strade, piazze, scuole. Virginia no. Ma scrive bene l’autrice di questo libro, ricordando la sola cosa che rimanga di quella bellissima fanciulla, la “chemise de nuit”: “E se a questa “chemise de nuit” dovessimo l’unità d’Italia”.

Insomma, Cavour va letto, riletto, studiato. Inutile scagliarsi contro di lui, inveire contro i morti. Come è inutile lodarli. Il rapporto del presente con il passato è complesso, delicato, instabile. Noi storici diamo la voce ai morti, ma siamo ben lungi dal dirigere, così facendo, un coro armonioso e intonato. Vengono fuori stecche mostruose di continuo, molti coristi tacciono, altri sono usciti dalla sala e altri, non ostante il nostro ripetutoo invito, non vi sono mai entrati.

Una cosa mi ha sempre colpito in lui: la costruzione dell’Italia sabauda, ovvero l’espansione del Regno di Sardegna ed il suo eventuale ma non necessario cambio di denominazione, furono il suo sogno, e la sua ossessione, dal 1850, o forse solo dal 1854, fino alla morte, nel 1861. E certe grandi imprese vanno perseguite con passione e soprattutto, costanza. Lui fu ossessivamente Costante, di notte e di giorno. Forse non riusciva più ad amare. Mangiava, lavorara, si infuriava, dormiva poco, viaggiava tra Parigi e Londra. L’eccesso di lavoro, in un fisico minato dalla malaria, lo portò a morte prematura. Non aveva che 50 anni, il 10 agosto 1861 ne avrebbe compiuti 51. Cavour, come noi, era nato sotto il dominio straniero. Il regno di Sardegna era, il 10 agosto 1810, un dipartimento dell’Impero francese.

Un paradosso, su cui invito a riflettere: per liberarsi di ITA, occorre guardare con simpatia, e spirito libero, a chi si oppose al progetto risorgimentale, e anche a chi lo sostenne fino in fondo.

Paolo L. Bernardini

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