Per una singolare omonimia da anni mi scambiano, tra gli altri “paoli bernardini” in circolazione nel mondo del sapere (non son pochi, e neppure che io sappia miei parenti), con un eccellente studioso che opera in Sardegna, credo di una diecina d’anni più anziano di me, archeologo di fama. Autore di numerose pubblicazioni, in ultimo di un libro (che non ho ancora letto) dal titolo “Le torri i metalli il mare”, appena pubblicato da Carlo Delfino editore. Dal momento che non lo ancora letto, mi limito qui a riportare quanto l’Autore dice del proprio libro, in modo che si sappia di cosa parla:
“Le vaste distese mobili del Mediterraneo sono state da sempre le strade dell’incontro tra Oriente e Occidente; itinerari millenari, custodi di mostri e di portenti, luoghi di insidie, di pericoli e di meraviglie, ma, alla fine, veicoli straordinari di incontro e di scambio culturale, di una crescita che, come quelle acque infinite in perenne movimento, è sempre mutamento e trasformazione. A occidente, oltre la strettoia di Gibilterra, le mitiche colonne d’Eracle indicano una fasulla fine del mondo; perché, nell’esperienza degli antichi marinai, degli esploratori e dei mercanti, esso continua nelle vie d’acqua dell’Atlantico che scavano percorsi profondi nella terra a incontrare i grandi fiumi, il Guadalquivir, il Tago, il Loukkos e le popolazioni che vivono nelle terre fertili che essi incidono e attraversano. A oriente, oltre le grandi e le piccole isole, oltre la Grecia e il favoloso Egitto, scrigno del sapere degli uomini, le coste dell’Anatolia, della Siria e della Palestina sono la seconda fine del mondo, altrettanto ingannevole; perché al di là conducono le mille tortuose e interminabili strade di terra e di fiume che saldano l’Oriente vicino all’Oriente lontano e profondo. Il Mediterraneo, il mare delle terre di mezzo, è il cuore di un viaggio infinito; in esso vi è un segno potente, l’orma di un dio calcata nel mare, l’isola di Sardegna, meta del nostro viaggio imminente. Proverò a raccontare, nel libro che inizia, alcune vicende di quel peregrinare incessante che ha segnato profondamente la storia antica dell’isola, dai primi contatti con le genti di cultura micenea all’egemonia cartaginese; quasi un millennio di storia che si distribuisce tra il XV e il VI secolo prima di Cristo. Si tratta di un viaggio infido e pericoloso. Le rotte sicure sono poche e le grandi masse d’acqua buia, le storie irrimediabilmente perse, incombono minacciose.”
Ora, presentato così sembra un libro di storia antica, apparentemente neutrale, tra archeologia e protostoria romana. Insomma, come può incidere nella nostra vita, nella nostra concezione del mondo, il libro che tratta di un millennio intero che termina ben cinquecento anni prima della nascita di Cristo?
Tuttavia, non vi è mai nulla di neutrale nella storia e nella storiografia (quella seria), perché in ogni caso cambiare la visione del passato altera naturalmente, o quantomeno modifica, la visione del presente. In questo caso, la posta in gioco è chiara. Si tratta di liberare la storia sarda da quella inveterata concezione, un vero e proprio pregiudizio diffuso a tutti i livelli, secondo cui l’isola sarebbe stata un luogo negletto e abbandonato, una “terra nullius” ( o per dirla con Eliot un “waste land”) di pastori/raccoglitori tagliati fuori da tutto e tutti, con un sacro terrore del mare (“i sardi non mangiano pesce e non sanno nuotare”, raccontavano alle medie ai miei tempi, a Genova) almeno finché i Savoia non vi hanno messo piede, a partire dal Settecento, per farne un “regno” e farla decollare nella modernità. Meno male che si sono ricordati di essere padroni della Sardegna all’arrivo di Napoleone, e che Cagliari c’era, se no dove sarebbero scappati?
Ora, già prima del mio illustre omonimo archeologo, che questa fosse una colossale panzana era chiaro a molti. La Sardegna ha sempre avuto una storia propria, e se mai a portarla nella “modernità” ci hanno pensato gli inventori della Costa Smeralda, l’Aga Khan, negli anni Sessanta. Con il rischio che una tale modernizzazione si dimostri assai precaria, soprattutto in tempi in cui costa meno passare dieci giorni alle Maldive che non una settimana a Palau. Insomma, la Sardegna arretrata, isolata, destituita di tutto, e risollevata per la prima volta nella storia intera (!) da una dinastia straniera e da un principe orientale, nel corso di meno di tre secoli, è invenzione della tradizione che è bene scientificamente sfatare. Non per nulla il libro di Bernardini ha suscitato appena uscito un vespaio di polemiche sui giornali e soprattutto i blog filo o anti-indipendentisti della Sardegna, dove l’IRS sta facendo cose egregie, e dove l’indipendenza naturalmente si avvicina, forse a passi più accelerati che non nella Venetia o altrove.
Ora sia chiaro che non intendo attribuire al mio omonimo e collega, che mai ho conosciuto di persona, ideali e sentimenti che non so se abbia; ovvero, non voglio assolutamente attribuirgli una volontà indipendentistica (che è quella che mi anima, per la Venetia e per la mia patria, la Liguria) o anche solo tenui simpatie per l’indipendenza sarda.
E’ solo curioso, e con questo chiudo invitando a comprare il libro e ad entrare in contatto con un millennio lontano di storia sardo-mediterranea assolutamente avvincente, che due persone con lo stesso nome, chi in un modo chi nell’altro, contribuiscano (per l’archeologo sardo forse involontariamente) a rivalutare tradizioni vivissime e ricchissime (in quel periodo c’erano nella Venetia i veneti antichi una volta detti “paleo-veneti”, e chissà che non siano stati in contatto con i sardi già allora); tradizioni che, almeno per me, per il Paolo Bernardini storico della prima età moderna, e autore di codeste righe, conosceranno la loro rivalutazione definitiva quando queste terre torneranno ad essere libere, e governate dai loro abitanti nei modi e nelle forme che riterranno più opportune.
Paolo L. Bernardini
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