Preso da Privatseminar
Alberto Alesina, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg nell’introduzione del loro paper intitolato Economic Integration and Political Disintegration scrivevano che
In a world of trade restrictions, large countries enjoy economic benefits, because political boundaries determine the size of the market. Under free trade and global markets even relatively small cultural, linguistic or ethnic groups can benefit from forming small, homogeneous political jurisdictions. This paper provides a formal model of the relationship between openness and the equilibrium number and size of countries, and successfully tests two implications of the model. Firstly, the economic benefits of country size are mediated by the degree of openness to trade. Secondly, the history of nation-state creations and secessions is influenced by the trade regime.
Mi sembra una cosa di assoluto buonsenso. In un mondo globalizzato, è nettamente meglio avere l’efficienza di uno governo (minimo) il più vicino possibile al cittadino imprenditore di uno stato piccolo che avere piuttosto una zavorra burocratica di uno stato elefantiaco il cui unico fine sembra quello di metterti il bastone tra le ruote; ai cittadini dello stato italiano non servono esempi di stato iperburocratico e ammazza-imprenditorialità, vero? In un mondo globalizzato nel quale l’azienda della piccola Slovenia e del grando stato italiano hanno lo stesso mercato, cioè il mondo, un vantaggio competitivo importantissimo è quello che c’è dietro l’azienda, cioè l’efficienza della struttura statale e burocratica e il carico fiscale che grava sui cittadini e sulle imprese; e di nuovo, i cittadini dello stato italiano non hanno bisogno di esempi di stati tassassini con servizi da terzo mondo, vero? Ecco perché sono a favore nell’andare verso la direzione del titolo del paper, ossia integrazione economica e disintegrazione politica. Piccolo e aperto sono sinonimi di efficiente e ricco.
Tantissime persone al giorno d’oggi però hanno molta confusione (e ignoranza) in testa e confondono i diversi piani. Capita così che alla possibilità, per esempio, dell’indipendenza di un territorio dallo stato italiano, metti il Veneto, qualche veneto risponda che no, è impensabile perché lui si sente “cittadino del mondo”, ossia, penso, che gira il mondo e che si sente bene e a proprio agio non solo all’interno del proprio stato di appartenenza. In questa sintetica risposta ci sono una serie di errori di valutazione che la metà basta.
- Perché essendo cittadino dello stato italiano, uno si può sentire “cittadino del mondo” mentre essendo cittadino di uno stato veneto invece no? Più lo stato è territorialmente esteso e più si hanno i titoli per essere cittadini del mondo? Dov’è la correlazione logica?
- Confondere il senso di fratellanza tra individui e popoli con l’appartenenza alla stessa struttura statale dal mio punto di vista è veramente limitante e sintomo di provincialismo. Io adoro la cultura giapponese e mi sono recato più volte a Tokyo; questo non implica che io sia a favore dell’annessione del Giappone al Veneto. Perché la mia amicizia con un siciliano o un campano dovrebbe essere inficiata dal non essere cittadini dello stesso stato?
- A chi le paga le tasse quel cittadino che si sente cittadino del mondo? Al mondo? No, le paga allo stato italiano. Detto in altri termini, l’amministrazione statale specifica e la voglia di girare il mondo sono due concetti su due piani diversi.
Sentirsi cittadino del mondo non implica disinteressarsi della struttura statale della quale si è cittadino. Anzi, il fatto che che anch’io mi senta cittadino del mondo implica il fatto che io abbia bisogno di soldi per girarlo e conoscerlo ‘sto mondo. A maggior ragione sono quindi a favore di un governo (minimo) in uno stato (minimo) efficiente che mi permetta di non essere dissanguato dalle tasse , che non ostacoli il mio business e che quindi mi dia le possibilità concrete per essere cittadino del mondo; non solo a (vuote) parole. Sento spesso parlare a casaccio la gente e tirare fuori argomenti insulsi e privi di fondamenta. Mi sono stancato.
Luca Schenato
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brao luca !no se poe pì sentir certe monade so esar citadini del mondo ,ze propio un discorso sensa senso uno poe sentise queo chel voe indipendentemente dao stato al quae el fà parte.WSM
Apprezzo molto l’articolo di Luca, che mi dà pure lo spunto per una sottodomanda a chi in futuro dovesse replicarmi con “siamo tutti cittadini del mondo, lei non crede?”
No, non credo, mia cara signora. Infatti se ne potrebbe aggiungere un’altra di osservazione, a quelle già proposte da Luca: se ami la cultura giapponese, potresti sentirti di farne parte? Si? Okay, e questo vale anche per un cinese? Ti sentiresti di farne parte, di condividere la stessa cultura, e riconoscerti nella stessa? Sia giapponese che cinese?
Dichiarare di essere “cittadini del mondo” appare dunque fallace anche con queste semplici domande che credo si autodocumentino (tra giapponesi e cinesi non c’è molta affinità e storicamente se le sono date di santa ragione in molte occasioni).
Co me sento rispondare ”mi sento cittadino del mondo” capiso ke xe ora de asar perdare e parlare co qualcun altro.
Questa xe ea tipica frase a cui fa ricorso ea xente co no a sa pi cosa dire, de fronte a l’evidensa dei fati.
Ancuò a so sta a on bancheto de Veneto Stato.
Fin l’ano pasa te catavi tanta xente che te dixeva sta monada a so sitadin del mondo.
Be deso li xè senpre de manco. tanti invese coeli che dixe a so sitadin dela Venetia.
@ Riccardo Nicetto:
Inveçe te dovarisi ribaterghe: “E ałora se ti si çitadin de’l mondo par cosa xe che te difendi l’itałia?”
Pal motivo ke go dito: go a ke fare go xente ke no sa cosa rispondare e ke nega l’evidensa dei fati.
Cuindi no vae a pena seitare ndar vanti discorare co personaji del xenare