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Silvio, Umberto, e i loro elettori

di Paolo Bernardini

Quel che si avvicina non è la fine del governo, ma, molto probabilmente, la fine di un sistema. E la fine di uno Stato, ITA, per lasciar posto ad un buon numero di piccoli, prosperi, entusiasti stati indipendenti, la Venetia fra questi. Tutto è già nell’aria, occorre, come sempre nella storia, che entri nelle coscienze del popolo, un popolo che vede ogni giorno assottigliarsi il proprio benessere, a favore di caste spaventose, ma esse stesse sempre più ridotte, poiché ove non c’è trippa per gatti manca anche quella per i topi. E dunque, tutto s’avvia verso un’ingloriosa fine, che per noi significa un gloriosissimo inizio. E poiché occorre vedere quel che è passato, o che comunque sta passando, anche attraverso le lenti della storia – gli storici sono qui per questo, lasciando ai politici il compito bello ma difficile di muovere le masse con la forza della parola e dell’esempio – dobbiamo in un certo senso comprendere che nel nostro recente passato, in forma timida ed inconsapevole, sono stati agitati, blanditi, ed ossequiati – attraverso il tributo del voto – ideali non del tutto sbagliati, anzi. Solo, essi erano terribilmente sfocati, come fotografie di qualcosa di irriconoscibile, e, proprio per questo, soggette a varie e strampalate interpretazioni.

Silvio Berlusconi, ovvero, il liberalismo.

Ecco, quello che ha mosso milioni di elettori a partire dal 1994 a votare l’imprenditore milanese, è stata la promessa liberale. Tutti ricordano quando si parlava di flat tax (al 20%?) nel 1994, e poi di due aliquote fiscali (modello irlandese?), più di recente. Poiché le idee hanno vita propria aldilà di chi se ne fa alfiere (almeno, fino ad un certo punto), sono stati tali ideali, trasformati abilmente in promesse, a muovere l’elettore. Ora, naturalmente i programmi liberali – in quanto nemici del Leviatano, volti a farlo inesorabilmente dimagrire – sono contraddizioni palesi nell’intimo meccanismo di un sistema di Stati e all’interno dello Stato stesso, anche se alle volte, e anche ora (senza parlare poniamo della Thatcher, o di Reagan), sono felici pratiche politiche, soprattutto, anzi, quasi esclusivamente, in piccoli stati. La promessa, o sfida, liberale, non è stata mantenuta. E’ questo – aldilà di Ruby – il vero motivo della caduta di consenso, poiché la massa elettorale è meno stupida di quel che si vuol credere. Le promesse non sono state mantenute non solo e non tanto per mire truffaldine, quanto per la non-adattabilità dello Stato ad una sua forte, radicale riduzione. Ma l’ideale liberale rimane un sogno per la maggioranza degli abitanti di ITA, coloro che non vivono della rendita di Stato, che in varie forme, ma per cifre sempre meno importanti, beneficia milioni di persone. L’ideale liberale rimarrà vivo nella Venetia libera, indipendentemente dal fatto che, comunque la si governerà (in modo liberale o in modo centralistico-welfaristico), i suoi abitanti staranno infinitamente meglio di quanto non siano ora, sudditi, ed anzi, colonizzati da ITA.

Umberto Bossi, ovvero, l’indipendenza (e poi, surrogato amaro, il “federalismo”).

Anche in questo caso, siamo di fronte ad una promessa, non mantenuta, né mantenibile nella sua forma annacquata ed anzi perversa di “federalismo”, che solletica i sogni degli abitanti di ITA, a ragione. In sostanza, dal punto di vista della dottrina liberale, una via (il liberalismo potenziale di Berlusconi) e l’altra (l’indipendentismo originario della Liga veneta, ad esempio, ma anche in parte della LN), portano al medesimo risultato. Solo che nel primo caso è reversibile, nell’altro, no. Mi spiego. Se improvvisamente in Italia venisse ridotto al minimo lo Stato, si privatizzasse a catena, come vogliono gli amici del Bruno Leoni, si introducesse una flat-tax del 20%, etc., lo Stato scomparirebbe a poco a poco. E quindi naturalmente le regioni storiche, che poi sono gli antichi Stati liberi, fiorirebbero in ogni modo, anche se assai meno (certo), rispetto a quanto potessero fiorire da Stati indipendenti. In sostanza, liberalismo forte, e indipendentismo, vanno ovviamente a braccetto. Ma sono entrambi progetti falliti, sia quello di Silvio, sia quello, simile nella sostanza, anche se non nella forma, di Umberto. Di nuovo, a prescindere dalla personalità del leader verde (su cui rimando al bellissimo e divertentissimo libro di Leonardo Facco, Umberto Magno. L’imperatore della Padania), siamo davanti a problematiche difficili. Il problema nell’introdurre politiche autenticamente liberiste – che come hanno spiegato (inascoltati dalla Sinistra, che vuole morire soltanto, ormai, in pace), due economisti come Alesina e Gavazzi, sono anche e pienamente nel segno di ideali di “sinistra” – da parte di uno Stato centralista, è duplice. Da un lato, un nuovo governo centrale potrà sempre revocarle. Dall’altro lato, come è possibile in una situazione di centralismo esasperato, pensare davvero di liberalizzare anche solo un pochino, di introdurre “scandalose” valutazioni di merito per i docenti (e conseguentemente decurtare loro lo stipendio, o aumentarlo), di abbassare le aliquote fiscali? Non è possibile. Come non è possibile neanche il federalismo fiscale (o di altro tipo), se non questa ridicola caricatura di un mostro uscita da poco all’attenzione, se uno Stato non nasce federale, dall’inizio. Si può diventare progressivamente sempre più centralisti, a partire da situazioni di alleanze e consociazioni (la Svizzera), ma, la Storia e la Dottrina insegnano, il processo contrario non è possibile. E’ valido solo come promessa elettorale, ovvero come menzogna per conquistare consensi.

Quel che è chiaro, dunque, è che gli elettori che hanno votato Silvio e Umberto, hanno una forte, viscerale esigenza di limitazione, e riduzione, in un modo o nell’altro, del peso dello Stato nella loro vita: perché sanno che le generazioni future, i loro figli, continuando così saranno destinati a morire di fame. E loro stessi, ad invecchiare nell’indigenza, quando, come succede ormai così spesso nel nostro Veneto, non si suicidano prima. Questa esigenza, viscerale, proprio per questo deve essere messa a fuoco intellettualmente, e occorre capire che l’indipendenza (della Venetia, della Liguria, etc. etc.), non è una delle possibilità, ma è la SOLA possibilità di salvezza. Poiché né liberalismo né federalismo sono oggettivamente, tecnicamente possibili, finché rimane in vita uno Stato centralistico di questo tipo, che ha rifiutato strutturalmente e l’uno e l’altro fin dall’inizio.

Questo, concedendo pure il beneficio della buona fede (cosa che in molti ora non sono propensi a fare), a Silvio e Umberto e compagnia. Poniamo che io sia assolutamente convinto di essere in grado di assicurare la felicità, e sia convinto della mia ricetta. Se ho consenso, continuerò a capitalizzare su di esso, perché attribuirò ad altri, altre persone, altri fattori (“tutti i comunisti che ci sono ancora in Italia”), il fallimento delle mie idee, la loro mancata realizzazione. In realtà, temo che in molti casi (nelle persone intelligenti), quasi subito ci si sia accorti della strutturale, intrinseca non-realizzabilità di programmi liberali e/o federali. E allora alla buona subentra la cattiva fede. E si mangia finché si può, finché il popolo non sottrae al re il banchetto, e taglia via tante teste vuote, poi, separandole con la lama della ghigliottina dalle pance piene. E’ la legge della storia. Il bastone diventa sempre più pesante e la carota sempre più lontana.

Per questo, il nostro progetto di Veneto Stato, il progetto dell’IRS in Sardegna, del FIL in Lombardia, dei vari movimenti indipendentistici siciliani, toscani, piemontesi, liguri, adriatici, è il solo valido. Perché è il solo possibile. Prima lo realizzeremo, prima lo spettro della fame si allontanerà. E anche quello della ghigliottina. Separati dall’odio nato da una unione forzata, i popoli del Sud e del Nord e delle Isole torneranno ad amarsi, come era prima di ITA. Perché saranno di nuovo liberi di scegliere del loro destino. E di affrontare la sfida di un mondo globalizzato e sempre più competitivo.

W la libertà della Venetia. Ma, prima di tutto, W la Libertà!

Paolo L. Bernardini

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