Tratto da “La Provincia” di Como
di Paolo Bernardini *
Invitare un indipendentista radicale a scrivere qualcosa di positivo sui 150 anni dell’Unità d’Italia, è un po’ come chiedere a Rocco Siffredi di dir qualcosa sulla castità e la continenza, o a Santa Teresina di Lisieux di esprimersi sulle prodezze filmiche e fors’anche private di Rocco. Ma questo non vuol dire che il silenzio sia la sola risposta. Le sfide sono belle perché tali. Altrimenti, il mondo sarebbe affatto noioso. Il compito del politico è quello di guidare e determinare il presente, per cui alla fine vale la massima, così irritante, ma così vera, di Ludwig Wittgenstein: «Cosa mi interessa del passato, io sono il primo e l’ultimo!». Il compito dello storico è di dare un quadro oggettivo del passato; è il compito che poneva Ranke, nel secolo XIX: «wie es eigentlich gewesen», raccontare i fatti «come sono accaduti davvero». Nel 1907 Croce scriveva un libro in cui intendeva superare il suo Maestro Hegel, definendo quel che fosse “vivo” e quel che fosse “morto” nel pensatore tedesco, defunto da oltre ottanta anni. Cos’è vivo del Risorgimento, ovvero dell’espansionismo sabaudo che conquistò Milano come un giorno Addis Abeba? Vivo è proprio ciò che allo “Stato Italia” che da quelle guerre sabaude è nato porrà un giorno fine, e che non ha molto a che fare con una dinastia francese ed i suoi ambiziosi ministri. Lo spirito di indipendenza, l’idea, sacrosanta, che ogni popolo deve governarsi da sé, senza governi stranieri, siano essi asburgici o sabaudi. Vivo è il coraggio di coloro che in buona fede diedero la vita per un’idea d’Italia; sarebbe ancor più vivo, se la loro non fosse la sola vicenda ricordata; ovvero se si parlasse anche di chi diede la vita perché l’Italia non si facesse, i patrioti borbonici, cui è stato appiccicato l’odioso nome di “briganti”, che la corporazione infima cui appartengo ancora non ha loro tolto, e i patrioti della Venetia, coloro che morirono per il Papa e lo Stato della Chiesa. A loro va il mio pensiero in questi giorni di infinita tristezza. Il tricolore aveva un senso nelle Cinque Giornate, quando esprimeva, per l’ultima volta, un ideale di libertà. Ora – e qui siamo all’inizio della enumerazione di quel che è morto – è simbolo di oppressione e crescente miseria. L’enumerazione finisce subito. Da storico, mi auguro che anziché “celebrare” si studi davvero, anche se alla fine temo che più si studierà seriamente l’Ottocento italiano, meno ci sarà da celebrare. Buon 2011.
(* Professore di Storia moderna, Università dell’Insubria di Como e Varese)
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