Mubarak lascia la presidenza, e indiscrezioni dicono si sia rifugiato a Sharm El-Sheikh, nel Sinai. E questa sera, quando la notizia si è diffusa nelle piazze assediate per il diciottesimo giorno di protesta irriducibile, dove nelle ultime ore anche ufficiali dell’esercito avevano iniziato a schierarsi con la folla, dove dalla TV di stato venivano emanate le scuse per avere per anni favorito il regime con la manipolazione dell’informazione, la gioia ha lasciato il posto alle tensioni.
Sono migliaia, centinaia di migliaia le persone assiepate a Il Cairo, si parla di più di un milione di persone solo in piazza Tahrir, un tripudio incredibile corre per tutto l’Egitto con cortei di auto, urla, fuochi artificiali, persone che intonano canto “Egitto libero” e clackson di automobili continui. Le immagini che si vedono dai corrispondenti di CNN, della BBC e di altre tv giornalistiche saturano il piccolo spazio che lo schermo può offrire in confronto all’esplosione di esultanza che arriva da quella regione del nord Africa.
Già nel pomeriggio si percepiva nell’aria che qualcosa sarebbe cambiato, chi aveva visto preparativi alla fuga di Mubarak aveva intuito e la voce, nell’era della digitalizzazione globale, non aveva tardato a correre e le borse avevano subito speculato sulla fiducia dei mercati al ritrovato equilibrio di un paese così strategicamente collocato per l’economia mondiale come l’Egitto. Ed è proprio da quel filo digitale che si rivela oggi la rivolozione è partita.
In una intervista rilasciata ad un corrispondente di CNN, uno degli studenti che aveva avviato le proteste, alla domanda “avevate pianificato tutto questo?” lui ha risposto “lo abbiamo pianificato, abbiamo pianificato di portare tanta più gente possibile per le strade”. Questi rivoluzionari intellettuali e forse un po’ nerd sono l’anima di questa rivoluzione a cui il nome di Elbaradein, premio nobel per la pace nel 2005, si è affiancato, appare diversa dalle rivoluzioni islamiche che hanno segnato le trasformazioni in Iran. Qui gli studenti hanno sfruttato a fondo la rete con il supporto (non ufficiale) degli occidentali, con Google, Facebook, e Twitter usati come strumenti per conoscere, farsi conoscere, ed organizzarsi. Mubarak aveva cercato di stroncare questa infrastruttura brutalmente annientando l’intera rete di telecomunicazioni dell’Egitto. Proprio così, certi dinosauri gerontocrati pur di mantenere le chiappe salde alla seggiola sono capaci di far fallire economicamente un paese. Perché stroncare tutte le telecomunicazioni, incluso la borsa, significa uccidere l’economia. E per quasi tre giorni l’Egitto è rimasto isolato al mondo.
Ora sono i militari a controllare il paese, una giunta militare che si spera lascierà spazio a elezioni. Perché molti sono i timori che nel trambusto aluni approfittino per prendere il potere. Come i Fratelli musulmani. L’organizzazione che pesa solo il 20% dei consensi in Egitto è entrata prepotentemente nella protesta e ne è stata parte fondamentale. Indicazioni sono che questa organizzazione, trasversale a diversi paesi, incluso gli USA, sia forse l’elemento di congiunzione che ha indotto le proteste in Tunisia, poi controllate dai militari mediante il noto colpo di stato, poi in Yemen, ed ora in Algeria dove più che altrove si temono azioni come quelle che già avevano in passato scosso il paese seminando terrore. In Egitto però molti rassicurano che la volontà della gente è libertà e democrazia.
Democrazia, parola iperabusata di cui io penso solo alcuni egiziani conoscano davvero il senso. In realtà sentendo la gente per le strade intervistata molti dichiarano: per avere meno fame, per poter lavorare, per stare meglio, avere benessere, libertà. Parole molto più genuine che manifestano la semplicità dell’esigenza di ogni essere umano.
Il timore di una presa di potere da parte dei Fratelli musulmani preoccupa non poco Israele, che non dorme sonni molto tranquilli. Se in Egitto si esulta in Israele si guarda con attenzione non senza apprensione l’evolversi degli eventi, anche se le parole distese di alcuni dei leader delle proteste sembrano condurre verso una composizione che non scada in estremismi, ci cui ora l’Egitto non ha proprio bisogno.
Non è mai bene declinare le notizie del mondo ad una visione introversa, e i giornalisti per primi e tutti quelli che hanno visibilità pubblica dovrebbero adeguarsi a questo stile scevro da provincialismo. Tuttavia anche per il Veneto, o meglio Le Venezie, si vivono momenti inusuali ed allora spero vogliate scusarmi se per questa volta mi abbandono ad una declinazione introversa. C’è sicuramente fermento in Veneto, forse non abbastanza per cambiare davvero le cose, ma in fondo dipende da quante persone ci credono e vogliono uscire di casa e farsi vedere. Per esempio a Venezia, Domenica 20 prossima a partire dalle ore 9 della mattina. Esserci vorrà dire affermare la propria volontà di cogliere un’opportunità che per essere trasformata da mera questione giuridica deve essere supportata dalla volontà e dalla dimostrazione popolare. Sono due bracci dello stesso meccanismo. E confesso che il giorno che ho letto la notizia della abrogazione della legge che annetteva le Venezie all’Italia, quel piccolo enorme mattone che fa da fondamenta al costrutto giuridico che fa pervenire alla Repubblica italiana il titolo di poter affermare la sua sovranità sulle Venezie, e che è stato maldestramente sottratto come in un classico “autogoal”, ebbene quel giorno mi ero sentito elettrizzato al punto che comprendo bene il senso di esultanza che oggi provano gli Egiziani.
Le battaglie non si vincono solo per la bravura dei combattenti, ma anche per saper cogliere gli errori dei nemici. Anzi, le vittorie sono essenzialmente l’opportunità raccolta sull’errore del nemico.
Claudio G.
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