di Paolo L. Bernardini
Se nel precedente intervento con il medesimo titolo ho parlato di territorio e storia, vorrei oggi dedicare la mia attenzione all’altro fondamentale elemento dell’identità veneta, le genti, le persone.
Grand Cayman, Mar dei Caraibi.
Perfino nel mezzo di un mare tropicale fioriscono imprenditori veneti. Un ristorante sul lungomare si chiama Casanova, e poco lontano una gelateria è gestita da una famiglia di Bassano. Questo mi permette di perdonarli per i 4 dollari delle Cayman, 5 dollari americani, spesi per un’eccellente coppetta di amarena. Conferma Guglielmo, simpatico siciliano e guida turistica — ci ha portato a vedere e toccare le simpatiche razze — che nel piccolo territorio tropicale del Commonwealth britannico i veneti sono numerosi, ed agguerriti. Ora, inevitabilmente la Venetia libera, lo stato veneto, potrà far conto su di un numero altissimo di giovani e meno giovani veneti che adesso, per libera scelta o più spesso per impossibilità di trovar lavoro in Veneto, si fanno onore nel mondo. Nella mia esperienza accademica ormai trentennale, in ogni dove ho trovato veneti eccellenti, cervelli in fuga da un territorio ostile, perché territorio occupato, non libero, colonia (dove ovviamente gli interessi dei colonizzatori non sono a favore dello sviluppo meno che mai intellettuale del territorio colonizzato).
Per fare solo alcuni esempi, guardando alle mie esperienze più recenti: alla Boston University, dove ho lavorato per otto anni, nel dipartimento di Storia, oltre a me l’altro cittadino di ITA era, ed ancora è, un veneto, studioso eccellente di storia cinese e di storia dei Gesuiti. Formatosi in gran parte a Venezia. Adesso mi trovo in Indiana. L’unico altro cittadino di ITA ospite del prestigioso, neonato Institute for Advanced Study della University of Notre Dame è un filosofo analitico di fama mondiale, docente in Scozia, ma veneto di nascita, e di formazione. Se scendo a Saint Louis trovo un veneto ben noto a dirigere il Dipartimento di Economia di una delle maggiori università americane, e del mondo, la Washington University, ma senza andare troppo lontano ne trovo un altro, sempre economista, e famoso in tutto il mondo, alla University of Chicago. Entrambi probabili candidati al Premio Nobel in un futuro non remoto.
Questo non significa che cervelli notevoli non lavorino (anche) in Veneto. Credo che soprattutto per quel che riguarda le generazioni nuove, un ottimo lavoro sia svolto in molti settori anche dagli studiosi veneti e non veneti presenti nelle università della Venetia, ma uno studio comparativo dimostrerebbe probabilmente come l’alto numero di cervelli in fuga provenienti dal Veneto abbia da un lato arricchito prestigiosi atenei e centri di ricerca nel mondo, dall’altro, ovviamente, abbia sottratto al Veneto altrettanta ricchezza, in termini quantificabili non solo economicamente (il danno per gli studenti che non hanno le menti migliori per formarli e consigliarli), anche se alla fine ogni tipo di danno, anche morale, può essere quantificato in termini monetari.
La stessa cosa vale per imprenditori, uomini d’affari, etc. Ve ne sono per fortuna ancora moltissimi in Veneto, ed eccellenti, ma molti altri hanno varcato il confine, come è noto, nell’ultima forma di migrazione massiccia che da almeno venti anni colpisce ITA: la fuga dei cervelli, e dei colletti bianchi, che storici americani dell’emigrazione, come Donna Gabaccia, giustamente collocano nella storia (non finita dunque) dell’emigrazione da ITA dal 1861 in poi.
La Venetia libera naturalmente offrirà un numero maggiore di possibilità a chi vorrà risiedervi e svolgervi onestamente qualsiasi lavoro, non solo intellettuale. Questo non significa che, nella naturale circolazione dei cervelli (e non solo di quelli) nel mondo globale, tutte le migliori menti resteranno nel Veneto libero. Ma significa senz’altro che esse avranno maggiori incentivi per rimanervi.
Non è mai semplice abbandonare il luogo ove si è nati e cresciuti, dove ci sono i propri affetti, che non sono eterni, come non lo siamo noi stessi. Una volta si diceva che di nostalgia si potesse anche morire. Per questo si può credere che anche a disparità di condizioni economiche, quando la disparità non sia macroscopica, il fattore territoriale giochi a favore del richiamo dei cervelli (o favore della loro non-fuga). Detto altrimenti, probabilmente dinanzi ad uno stipendio dieci volte superiore, l’amore per la propria patria potrebbe essere messo in crisi, ma se lo stipendio fosse (come di fatto spesso accade) anche “solo” doppio, o superiore del 50%, facilmente si potrebbe rinunciare ad esso per tutti i benefici extra-economici presenti nel poter vivere in una terra cui si è legati, e soprattutto all’interno della propria cerchia di affetti ed amicizie.
Per questo le potenzialità di un Veneto indipendente sono immense. Le donne e gli uomini di questa magnifica terra hanno radici che affondano nei millenni. E questo in parte consente loro di fiorire in ogni luogo ed in ogni circostanza, dal gelataio delle Cayman all’economista di Saint Louis.
E questo senza scendere in stupidi ed anacronistici sciovinismi: la stessa cosa vale per scozzesi e genovesi, siciliani e napoletani, catalani e indonesiani, e molte, molte altre nazioni di questo mondo che si fa sempre più piccolo. E per onestà intellettuale occorre anche dire che spesso la formazione, almeno fino alla laurea, di questi studiosi, è avvenuta all’interno di università di ITA, e anche in esse, con tutti i loro limiti, tutte le loro ben note disgrazie, va cercata una base solida su cui costruire. Sarà necessario essere molto saggi nel ripulire il vecchio, evitando, come dice il noto proverbio, di gettar via l’acqua sporca del bagno insieme al bambino (anche se taluni di quei bambini, in ITA, appariranno simili alla fine al bimbetto del classico “Fenomena” di Dario Argento!).
La transizione verso la Venetia libera dovrà affrontare problemi complessi, ed evitare manicheismi potenzialmente devastanti.
Ma è una sfida bellissima, che restituisce una forma di nobiltà alla politica, qualcosa che ITA e tutti i suoi partiti hanno dimenticato, e distrutto, da tempo. Restituisce anche entusiasmo generale, “voglia di impegnarsi” nel perpetuo ripresentarsi di riformulazioni e nuove necessità nei mutamenti di governo. Se spesso nel passato i giovani hanno combattuto contra la dittatura per instaurare la democrazia (Che Guevara, icona ancora di milioni di giovani, ha fatto questo, salvo che poi ne ha instaurata un’altra) ora i giovani hanno la possibilità di lottare per ri-creare piccoli Stati, in Europa e nel mondo, sulla base sia di un immenso retaggio storico mai spento, sia della necessità contigente di creare piccoli stati perfomanti che pongano fine agli anacronistici, obsoleti, costosi ed inutili Leviatani ottocenteschi, di cui ITA è l’esempio migliore (ovvero peggiore). Con le dovute eccezioni, come gli USA (che sono uno stato federale, però, davvero), la libertà e la felicità della persona sono ormai inversamente proporzionali alle dimensioni dello stato in cui vive.
Non voglio dire che questa sia una legge storica, un’invariante. Voglio dire che, qui e ora, è così. E qui e ora noi viviamo. Può darsi che il Paradiso, o l’Inferno, siano grandi stati, “civitates maximae”, ma sinceramente, pur propendendo per il Paradiso come mia “final destination”, mi interessano gli stati di questo mondo soltanto.
La creazione di piccoli Stati rispettosi dell’identità, dei diritti, della felicità, e soprattutto della vita e della proprietà degli individui è la sfida più grande di questo millennio che ha appena compiuto 11 anni, va alle scuole medie, dunque, un’età in ogni senso di transizione.
Paolo L. Bernardini
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