Considerazioni da “The Economist” e dalla realtà di ITA
di Paolo L. Bernardini
Sinceramente, negli anni di giovinezza non avrei mai pensato di vedere cotante bassure, nel paese in cui mio malgrado sono nato. Invecchiando, il mio pensiero va alla condanna che tocca le generazioni dei giovani, di coloro che ora hanno trent’anni o venti. Non hanno futuro. Ma forse solo quando diventeranno pienamente consapevoli di questo abbracceranno tutti la causa dell’indipendenza. Sperando che si liberino presto di questo giogo, non quando sarà troppo tardi.
Di ritorno da un lungo soggiorno negli USA ho avuto già modo di rabbrividire. Sono tornato presso un popolo le cui gioie sono divenute minime…Qualche giorno di speranza, ad esempio, e di gioia, per il promesso abbassamento delle aliquote IRPEF (un poco d’aria…!), promessa subito rimangiata, tanto ormai si subisce ogni cosa, il bastone è divenuto uguale alla carota, non c’è più neanche questa fondamentale differenza: d’altra parte forme falliche sono entrambe, ed entrambe, lo sappiamo bene, hanno una direzione ben precisa, vanno là, ove non batte il sole. Nella condizione in cui siamo, mi ricorda, tragicamente, la promessa che il boia, nel medioevo e per tutta l’età moderna, faceva spesso ai condannati al rogo: “Ti strangolerò prima di darti alle fiamme”. Sul rogo, il malcapitato si attende il laccio. E invece il boia gli sussurra, come a Grandier vittima innocente nella Francia isterica di Luigi XIII: “Niente da fare, ora bruci vivo!”, e si allontana sghignazzando. Perlomeno, il poveretto per qualche giorno avrà avuto lo speranza di poter morire con minore sofferenza, e assai più rapidamente. Ma siccome di lamenti e treni (nel senso di canti funebri, non di mezzi di trasporto), son pieni i giornali, le tv, e i nuovi media, vorrei invece soffermarmi sul lungo inserto che l’Economist ha dedicato a ITA, in data 11 giugno 2011. Ora, devo dire che sono in disaccordo con tutte o quasi le premesse di questo lungo attacco a ITA, e ovviamente, a partire dal titolo, “Oh for a new Risorgimento”, si capisce che i bravi giornalisti inglesi credono che solo sostituendo il bersaglio principale del loro dossier, Silvio Berlusconi, una situazione compromessa dal 1861 si possa rovesciare con una tornata elettorale (o un colpo di Stato). Il titolo del numero intero dell’Economist è eloquente, e cattivo: sopra una foto del Silvio nazionale sorridente, sta scritto “The man who screwed an entire country”. L’uomo che ha rovinato (traduciamo così, togliendo gli impliciti sessuali del verbo “to screw”), un intero paese. Ma chi questo paese conosca assai meglio dei filogaribaldini dell’Economist, potrebbe facilmente rovesciarlo, parafrasandolo così: “the country which screwed an entire people”. Perché questa – senza voler salvare Berlusconi, peraltro – è la verità.
Ora, rimandando ad altro scritto un’analisi dettagliata del dossier Economist, su un punto, e forse uno solo, non vi è senz’altro da discutere. ITA è tra i pochi (e disgraziati) paesi il cui PIL pro capite è decresciuto, negli ultimi dieci anni, in percentuale annua media di 0,5 %, con una media di crescita invece, per i paesi OECD, di circa 1,4 %, di 0,8 circa per gli USA, etc. Ora, in dieci anni 0,5 diventa 5%, quindi vuol dire che il PIL pro-capite di ITA è sceso del 5% in dieci anni, mentre altrove è salito assai, perfino in Grecia, e moltissimo ad esempio in una vera tigre del Nord, la Svezia, che prudentemente fuori dall’area EURO si gode un periodo di meritato benessere, con relativo allentamento (cauto) del suo tradizionale welfare. Ora, una simile discesa, se ad essa affianchiamo la perdita di potere d’acquisto legata ad una inflazione notevolissima, alla faccia della stabilità dell’euro, dice chiaramente che la miseria (quella nera) si avvicina. E’ un dato tremendo, irreversibile, tragico. Segnala una crisi immane ed una ancor peggiore a seguire nell’immediato, e figuriamoci poi sul lungo periodo (25 anni, un’altra generazione).
A grandi passi la catastrofe si avvicina. Perché il gap nei confronti degli altri paesi, dentro e fuori Eurolandia, continua a crescere, e notevolmente, e ITA sta a fianco, in performance negativa, solo più, come diligentemente informa l’Economist, con “Madagascar, Bahamas, Kiribati, Togo, Brunei, Saint Kitts and Nevis, Repubblica centrale sudafricana, Haiti, Costa d’Avorio, Liberia, Zimbabwe e Eritrea (ex colonia di ITA, peraltro).
Fino a quando? Fino a che si arriverà ad un punto di rottura, drammatico. Ora, l’indipendenza di Veneto, Sardegna, e tutti le altre ex-regioni italiane è una necessità primaria, non tanto per prosperare, quanto, almeno all’inizio, per evitare una tristissima fine. Lo spostamento dell’asse economico del mondo altrove condanna ITA ad una posizione marginale, la sua stessa esistenza condanna i suoi abitanti alla miseria. Il Veneto libero potrà competere, non vincere. ITA neanche più compete, se non nel triste primato delle infamie e delle burle di cui la recentissima manovra finanziaria è esempio sconvolgente. Il limite del peggio scende sempre di più, con quale paese mondiale del 2011 ITA si mette in gara? Per trovare qualcosa di simile bisogna forse scavare nella storia. O migliorare i telescopi e cercare una simile situazione di disgrazia altrove nell’universo.
Occorre liberarsi prima di morire. I morti non competono. Non respirano più, come fanno a fare qualsiasi cosa?
Paolo L. Bernardini
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