Notizie dalla Venetia nel 145° anno di occupazione italiana
Da sempre, i fiumi sono un elemento fondamentale nella geografia, e dunque nella storia della Venetia. Uniscono il mare alla terraferma, ma non solo, in qualche modo trasformano la terraferma in un prato navigabile, la rendono marina, e fluida. In una civiltà di acque, tutto quello che è acqua, la laguna, il fiume, il torrente, le acque sotterranee che conferiscono identità e ricchezza alle Terme Euganee dove trascorro parte della mia vita, ma anche i ghiacciai alpini, rappresenta un modo per comprendere una civiltà, conferisce una prospettiva che civiltà altre non hanno, legate in tutto e per tutto ad una terra spesso priva d’acque. E poi, sovrano delle acque, il mare…
Tuttavia, in questi tempi infinitamente amari, e dolci soltanto perché più il disagio di vivere nel lozzo e nel brutto s’accresce, più si aprono le porte della libertà, occorre soffermarsi su due episodi terribili, legati ai fiumi. E alla morte.
A Noventa, un giovane moldavo annega per sfuggire ai carabinieri. Contemporaneamente, a Ospedaletto Euganeo un altro uomo, Paolino Lucchin, padre di famiglia, si getta nel fiume, perché disperato, perché credeva di non poter uscire dalla crisi economica che toccando uno stato, entità astratta, si concreta nello stroncare gli individui, nella realtà in cui si esprime.
Così, la Brenta e l’Adige, fiumi felici, hanno dovuto assumersi la loro quota di morte, due vittime di un tempo di miseria, morale e materiale, quale non si era mai visto prima, in un paese che definire “di merda” come fa Marco Travaglio nell’editoriale scatologico su “Il Fatto” del 16 settembre – dove si anche racconta del premier che “infilava il crocifisso tra le tette di Nicole” – è sbagliato, perché in questo modo lo si nobilita. La merda è organica, e legata dunque alla vita: ITA, invece, ci offre lo spettacolo di burattini senz’anima e senza cuore, fantocci che s’agitano e gridano e strisciano e sbuffano, emettendo i rauchi suoni metallici di un motorino in agonia, per rallentare il salto nel fuoco, e poi nel vuoto, che la storia ha preparato per loro.
A Paolino Lucchin, 56 anni, dedicheremo una strada nella Venetia libera. Così come a tutti coloro che si sono suicidati e si stanno suicidando perché ITA li uccide, e vogliono avere almeno la dignità di por fine alla propria vita di propria mano. Ricorderemo anche quel giovane moldavo, Ruslan Moisei, aveva 23 anni. Lo ricorderemo perché sul web si è scatenato l’attacco contro di lui, era un ladro (o rubava per sopravvivere? – la differenza è abissale), e da parte di chi? Da parte dei pasionari con il fazzoletto verde, coloro che per continuare a tradire il proprio popolo devono pubblicamente offendere popoli e genti altre, coloro che invidiano chi apertamente ruba perché devono ogni giorno onorare i loro capi, che rubano segretamente (ma neppure troppo) e cifre molto più consistenti? Da parte dei coetanei di Ruslan, che presto per lavorare dovranno tutti trasferirsi anche in Moldova, perché qui stanno morendo di fame? Da parte di chi? Di chi invidia i morti, perché almeno non devono più subire umiliazioni, quando le umiliazioni che ITA impartisce ogni giorno ad un popolo di schiavi hanno superato perfino l’immaginazione di Sade; per cui ormai un “crocifisso tra le tette”, in fatto di perversioni, è pari ad un tenero bacio tra adolescenti?
Speriamo che al più presto tutti si rendano conto che ITA è un moribondo che cammina, un sonnambulo abbietto che, come il protagonista di una celebre novella di Pirandello, uccide chi gli sta intorno gridando “roba mia vientene con me…”, perché ha davvero la convinzione che la nostra proprietà, la nostra vita, sia roba sua. Ma così non è. E’ roba nostra, e questa cosa informe deve morire da sola. Noi saremo tutti al suo funerale, e la bandiera di San Marco sventolerà quel giorno anche in via Paolino Lucchin, al centro di Ospedaletto Euganeo, avrà sostituito una via garibaldi, un corso ITA, un largo cavour, che sicuramente ora insozzano l’onomastica di quell’ameno paesino. Vi sono martiri silenziosi che pavimentano le strade che portano alla libertà. La loro memoria vive e vivrà in tutti noi. E nelle nostre generazioni future.
Paolo L. Bernardini
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