Sin da piccolo mi incuriosiva la divisione, che sentivo anche negli anni Settanta del secolo passato, tra “politici” e “tecnici” nella gestione dell’oggetto pubblico denominato ITA. Ora, in questo scorcio di 2011, torna ampiamente il discorso, ed è giusto dunque dedicarvi qualche riflessione. Ogni e qualunque istituzione deve essere guidata, si ritiene, da tecnici, ovvero da chi conosce il mestiere. Se un ospedale fosse retto, gestito e condotto da persone che non sono medici, ovvero tecnici, fallirebbe il proprio scopo. Che è quello di curare. Se in ossequio al principio di democrazia partitocratica eleggessimo chi vogliamo in un ospedale, chi ci promette la vita eterna ma non sa neanche cos’è una milza, ebbene quali risultati avremmo? Lo stesso si applica a tutti o quasi i domini della vita, anche quelli che non hanno apparentemente utilità immediata (anche se spesso la hanno, solo non diretta e palpabile), come gli affari di religione. Un prete, a proprio modo, è un “tecnico”, se non altro perché conosce o dovrebbe conoscere il Vangelo, se non l’Antico Testamento, se non gli scritti dei principali Padri della Chiesa, da Origene ad Agostino. Tutti si scandalizzerebbero se a dire la Messa fosse mandata la perpetua o il sagrestano.
Quindi se la gestione della cosa pubblica, che dovrebbe essere l’istituzione delle istituzioni, è affidata a “tecnici”, vuol dire che richiede conoscenze “tecniche”. Beh, ma allora, perché questa è un’eccezione? Anche malvista, per giunta? In che cosa consiste la divisione tra “tecnici” e “politici”? Ed è dunque possibile gestire la cosa pubblica senza essere “tecnici”? Allora se si può gestire come “politici”, senza nessun “know how”, vuol dire che in realtà è ben poca cosa. E ben poca cosa (per ora) è. Infatti lo Stato, o almeno l’abominevole Leviathan ottocentesco, non ha veramente bisogno di alcun “tecnico” a gestirlo, perché è un macchina mostruosa il cui unico scopo è quello di divorare le ricchezze prodotte onestamente dai cittadini onesti e trasformarle, re Mida al contrario, da oro in sterco per i propri coprofili interessi. Sotto il manto accettabile e da tutti vezzeggiato della “democrazia”, gli “eletti”, cioè i politici, che non sono tecnici in niente, che non sanno niente, che non saprebbero individuare il cilindro in un motore o il tacco in una scarpa, figuriamoci ripararlo o sostituirlo, forti della sola legittimazione popolare, per carità di un popolo in buona fede costretto da secoli a credere nella bontà della democrazia, sono chiamati a condurre una macchina, Leviathan (che vuol dire in ebraico “balena” ma la balena in quanto organismo e pure simpatico non voglio associarlo allo Stato), che va da sola. Certamente, in alcuni settori del “pubblico” può – forse – bastare il “buon senso”. Mart Laar, che ha fatto grande l’Estonia nei suoi esordi postsovietici, non era un gran tecnico, ma un professore di scuola media pieno di buon senso. La riforma Gelmini dell’Università è piena di buon senso. Eppure, se vista da un “tecnico” come me, è evidentemente opera di un “politico”, ovvero mostra tutte le falle di una realizzazione mediocre di principi anche ampiamente liberali. Perché ormai il mondo si è complicato moltissimo. E non bastano buone premesse per garantire il risultato. Si può al massimo vincere una gara di dilettanti se ci si allena in palestra una volta la settimana. Per essere a livello mondiale, occorre allenarsi tutti i giorni, quasi tutto il giorno.
Così la macchina-Stato va sì da sola, ma solo fin quando l’economia, che ormai si muove a livello mondiale, lo consente. Quando la macchina smette di funzionare, perché messa in crisi da una macchina ben più grande di cui essa è solo una rotellina, il “politico” scopre di non aver nessun “know how” per rimetterla in moto, e capisce che esiste uno iato incolmabile, concettuale, e strutturale, tra la legittimazione del popolo e il meccanismo democratico, e i compiti che poi è chiamato a svolgere una volta in posizioni ottenibili, in linea di principio teorica, anche senza nessuna legittimazione popolare. Se non dovessero confrontarsi nell’arena mondiale, se gli Stati fossero bestie autocratiche come la Germania di Hitler, o l’ITA di Mussolini, due criminali malati di mente le potevano e le potrebbero gestire benissimo. Senza impegolarsi in guerre e stermini, basta spesso “sano buon senso”; come ebbe il dittatore Franco, spagnolo che tenne fuori dalla guerra la Spagna, salva condannarla ad estrema povertà. Gli Stati, al contrario degli individui, non possono vivere in perfetta solitudine.
Il re è dunque nudo.
A questo punto sorgono domande inquietanti: A cosa serve la democrazia? Dunque il “politico” lascia il posto al “tecnico”. Come abbiamo visto. Qual è la soluzione? La soluzione non ci interessa per ITA moribonda, requiescat sine pace. Ci interessa per il Veneto libero che stiamo costruendo. Che dovrà essere meno “politico” che mai. Ovvero, dovrà ripensare i suoi sistemi di “governance”, ma anche inizialmente di governo e amministrazione, in modo estremamente flessibile, decentrato e confederale (rimando qui all’ottimo modello [ad esempio] proposto in questo sito da Veneto Stato Brescia) prevedendo una capacità d’azione politica legata al “know how” di coloro che vi troveranno di volta in volta nelle mani il potere. Questo vuol dire che non esisterà più uno iato ridicolo ma potenzialmente tragico tra “politico” e “tecnico”. Il piccolo Stato non perché è “piccolo” richiede meno “know how” o è meno complesso. Anzi, riducendo il numero dei politici, essi dovranno essere tutti esperti nelle loro professioni e settori, e di prima grandezza. Non ci potremmo permettere Minetti, Trote, e i figuranti del nulla che affollavano a nostre spese i Parlamenti di ITA, quelli che una volta chiamavano “peones”, finché non ci si è accorti che era un insulto per i veri “peones” che producono assai più di loro, ed hanno dignità assai maggiore.
Ma questo non vuol dire che si dovrà rinunciare alla democrazia, solamente si dovrà ripensare radicalmente la stessa nozione di “democrazia rappresentativa”. Che porta alla divisione tra “tecnici” e “politici”, priva di senso, e svuota di senso lo Stato stesso. Un piccolo Stato ha la possibilità, tramite frequenti referendum, di utilizzare lo strumento della “democrazia diretta”, ad esempio. Che non delega le decisioni, ma le prende direttamente. L’elettronica lo consente ampiamente. L’orribile sistema partitocratico, ovvero tendenzialmente anti-democratico nel suo apparente ossequio verso la democrazia, che conosciamo in ITA, ha poi addirittura tolto, con l’attuale legge elettorale, all’elettore la scelta dell’individuo, per cui i “politici” non rispondono neanche più veramente agli elettori, ma a quelle associazioni a delinquere che si chiamano “partiti”. Ecco, nel Veneto libero, la stessa istituzione “partito politico” dovrà essere del tutto ripensata.
Per far questo, occorrono giuristi ed economisti di prima grandezza. Queste mie parole sono anche un invito a loro. Continuate a lavorare, o mettetevi sotto!
WSM
Paolo L. Bernardini
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Articolo molto interessante. Devo dire che anche nella nostra quotidianità, non sempre i mestieri vengono fatti da chi li sa fare. Questo modello politico italiano ha contribuito ad imprimere nelle teste delle persone che tutto sommato, per fare qualcosa basta volerlo, non è importante se sai fare quella cosa. E tanti si buttano, attratti dal profitto, dal protagonismo su idee imprenditoriali che appaiono buone, ma non avendo gli strumenti culturali adatti per quel particolare tipo di mestieri sottovalutano o non vedono il reale impegno e la reale conoscenze che chiede.
La figura del ciarlatano, perchè è così che si diventa quando si fa qualcosa che non si conosce, è vincente in un sistema in cui i cittadini, rimbambiti dalla politica e dalla televisione non hanno gli strumenti culturali per discriminare tra chi un lavoro lo sa fare e chi no.
Auguriamoci che i politici del Veneto indipendente, diano un altro tipo di esempio ai loro concittadini
Articolo molto interessante, ma manca una cosa: il collegamento tra tecnici e politici, in teoria, nello Stato esiste; sono i ministeri, retti da ministri e sottosegretari politici, ma con direttori e dipendenti che dovrebbero essere puramente tecnici.
Qui casca l’asino, per l’Italia: se infatti esistono persone di sicura professionalità e di certo buon senso negli organici ministeriali, è ancora più vero (per chiunque abbia una minima cognizione del funzionamento dei ministeri italiani) che tali uffici sono pieni di persone molto più attente al proprio personale/corporativo tornaconto che alla buona gestione della cosa pubblica. La Gelmini avrà fatto una riforma buona di principio e fallace nell’attuazione, ma di sicuro essa verrà boicottata in ogni maniera da molti “tecnici” ministeriali (non tutti magari) i quali se ne impipperanno altamente dei buoni principi e, usando come pretesto le fallacità pratiche della riforma, la rivolteranno come un calzino per mantenere i propri privilegi corporativi ed evitare di “produrre” (termine forse brutto, ma che non è necessariamente finanziario, e può ben riferirsi anche alla “produzione culturale” ad esempio).
Mi trovo invece in disaccordo sul facile ricorso ai referendum: la democrazia diretta può spesso scadere nel populismo; è vero che non ci sarebbe grande differenza con l’Italia odierna (dove, ad esempio, i politici fanno proprie le fobie ed i vizi della massa, invece che affidarsi agli esperti dei vari settori e fare da filtro) ma spero sinceramente che la Venetia libera saprà dotarsi di una classe politica all’altezza delle sfide europee e globali.
No serve politeghi, no serve tecneghi, se vota da càxa, gnisòn ga el dirito de pensar de far politega mejo de on sitadìn. Deso ghe xe el mexo pa parmetar el voto a tuti da càxa.
E secondo ti Gaxeta Veneta i sitadini riese a governarse ben votando da casa
beh, se te diminuisi el numaro de robe da votar, e cioe’ el numaro de robe da gestir in comune co altri, mi penso de si. L
par mi i tecneghi i serve i poiteghi no.
ma coesto el ghe jera xà inte la serenisima (anca se la faxeva fadiga a tegnerse fora da la poitega par l’influensa internasional).
xe vardava de pì a xente che la gavese nobìi valori e bon sesto par el popolo e la tera (no i jera par gnente poiteghi).
SOTO de lori i ghe jera coei che ancùo ciamaresimo tecneghi.
xe ghe vol bona xente de boni fondaminti umani che i fasa bona xestion, e soto de lori i tecneghi che i gà pì la man in pasta inte le robe spesifiche.
cofà na suca e le man.
podaria somejarghe ala strutura poitega de ancùo ma ghe xe diferensa (forse par coesto l’itaja no la gà intivada).
Mi, me ripeto e me spiego, creo che ghe sipia on fià de confuxion tra masa e individuo: el individuo el raijona cola so testa; la masa, pì semplisemente, no la raijona. El ricorso esesivo ai referendum el deventaria on voto de masa, no de individui.
Quando la massa deventa tale? 2 persone? 4 persone? 200 persone, 20000, 200000 o 2 milioni…?