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Viaggio nel Veneto del futuro: l’Università

Nel Veneto libero, indipendente e sovrano che stiamo costruendo, ognuno con i propri mezzi e le proprie capacità, molte cose, naturalmente, cambieranno rispetto al periodo della dominazione italiana. Onde si evitino cambiamenti traumatici, ritengo che i cambiamenti – almeno nel settore in cui opero, quello dell’università – debbano essere graduali, ma decisi. La situazione di ITA per molti aspetti era ed è insostenibile, non ostante ottimi spunti nel senso di una razionalizzazione e di un miglior uso delle risorse fossero comunque presenti nel c.d. “riforma Gelmini”, la legge 240 del 30 dicembre 2010. Ora, i miei lunghi anni di lavoro in tutto il mondo, in futuro l’Asia centrale, e sempre nel settore accademico, e la mia attività di cinque anni esatti ormai in una università piccola ma piena di nicchie di eccellenza come quella dell’Insubria – non ultimo il dipartimento presso cui opero e che in regime di ristrettezze economiche notevoli riesce a tenere in piedi ad altissimo livello numerosi corsi di laurea – mi hanno insegnato, e mi confermano nell’idea, che, aldilà della presenza o meno di grossi o immensi capitali (l’endowment di Harvard è di oltre 30 miliardi di dollari), è sugli uomini, sul “materiale umano”, che come per gran parte o la totalità delle istituzioni, occorre basarsi. Sia sulla loro qualità, sia sul loro razionale uso. Ora, in ITA, purtroppo – e a questo la riforma Gelmini tendeva a por rimedio, anche se non con tutta la radicalità necessaria e con diverse ambiguità – il regime dei privilegi si affianca, da sempre, a quello del cattivo uso delle risorse.

Un esempio lampante è quello dei “ricercatori”. Mentre gli equivalenti ad essi nel mondo, gli “Assistant Professors”, ad esempio, degli atenei USA, insegnano dai 4 ai 6 corsi all’anno, non meno quindi, ma sovente di più rispetto ai loro colleghi di qualifica superiore (“Associate” e “Full” rispettivamente), essendo tenuti allo stesso tempo a produrre ricerca e a pubblicarne i risultati, in Italia i ricercatori non solo per legge non sono tenuti ad insegnare, ma, qualora lo facessero, devono essere retribuiti per questo, perché la loro qualifica e funzione non comprende in sé l’insegnamento.
Ed ecco dunque l’orrore. Ci sono oltre 20.000 ricercatori in ITA. Ovvero oltre un terzo del corpo docente complessivo, di circa 60.000. Che cosa fanno? Teoricamente, “fanno ricerca”. Ma è accertato che la loro produzione scientifica non è maggiore rispetto a quella di ordinari ed associati che hanno un obbligo di insegnamento di 120 ore annue almeno. Dunque, essi sono per la gran parte dei “rentiers”, lo Stato ha dato loro una piccola rendita, un feudo. Tutto questo nel Veneto libero scomparirà. Non è possibile mantenere un esercito di 20.000 “rentiers”, non se lo può permettere neanche Harvard che appunto ha in cassa, per ogni evenienza, liquidi per 30 miliardi. Nel Veneto libero sarà creata la figura del “professore assistente”, e l’insegnamento sarà per loro di almeno 4 corsi all’anno. Il “ricercatore” è uno degli orrori di ITA, una figura la cui inattualità era ben presente anche nel passato governo.
Le Università del Veneto saranno almeno trilingue, inglese, veneto, e italiano; saranno aperte al mondo del sapere e ritorneranno a competere con i maggiori atenei del mondo. Non vigerà più il principio – almeno è quanto io auspico da liberale classico – della gratuità o quasi dell’istruzione superiore, in quanto essa non è un diritto, posto che lo sia quella di ogni altro ordine e grado. Credo che occorra equiparare la retta al costo (allo stato attuale, circa 9.000 euro) e poi stabilire una serie di borse di studio per i meritevoli, ma i meritevoli davvero.
La grande Padova è troppo grande e verranno create sedi distaccati. Università di quella mole, come ospedali di quella mole, sono centri di potere collaterale e colluso che andavano bene ai tempi di ITA, ma sono perniciosi in un contesto di piccolo Stato. Se è vero che “piccolo è libero” come vuole Gilberto Oneto, ebbene la “Patavina libertas” di Padova sarà ancor più tale nel momento che l’università di massa, in quanto fa massa di potere, e in ogni senso, verrà parcellizzata.
Sarà poi necessario pensare ad agili strutture come un Politecnico a Rovigo; non sarà un MIT o un CalTech, ma sarà su quel modello.
Per quel che riguarda Belluno e Vicenza, può darsi che si possano costruire piccoli atenei anche lì. Questo se il Veneto rimane nei confini attribuitigli dalla costituzione di ITA, confini che potrebbero variare, ad esempio nella direzione del Friuli, e/o in quella di Bergamo e Brescia. Ma non anticipiamo i tempi. I piccoli Stati hanno di solito, quasi sempre, università d’eccellenza, l’esempio migliore in questo caso è la Svizzera. Questo secondo me è quello da seguire. Una piccola università, come nel caso di quella ove insegno, è molto più gestibile, e rende gli studenti molto più felici. Credo che in Veneto ci sia tantissimo materiale umano per costruire nel tempo università di eccellenza; l’Università di Padova precede ITA di 440 anni circa, e per fortuna continuerà a lungo dopo che da ITA il Veneto si sarà distaccato. Soprattutto tra i giovani vi sono tantissimi studiosi di alto livello, che meriterebbero di essere valorizzati in altro contesto. Non necessariamente un contesto più “ricco” (anche se il Veneto libero sarà tale, ovviamente), ma in un contesto più “razionale”, perché, anche a parità di condizioni finanziarie, un “miglior uso” delle risorse è possibile.

Paolo L. Bernardini

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