di Alessio Morosin
Riportiamo un interessante intervento dell’Avv. Alessio Morosin pubblicato in originale nella Rivista “AVVOCATI.VE”, l’organo di informazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia (fonte)
Nella trattazione del delicato argomento tornato d’attualità – ed oggetto anche di un recente interessante convegno organizzato dall’AIGA a Venezia – non possiamo non partire dal richiamo del testo di due importanti norme costituzionali: l’art. 101 “La giustizia è amministrata in nome del popolo” e l’art. 102 “La legge regola i casi e le forme di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia”.
Come ha scritto il Prof. Ennio Amodio: “Sono anzitutto le norme costituzionali ad offrire la conferma della posizione primaria che spetta ai giudici senza toga nei processi penali in virtù del principio della sovranità popolare” [Vedi il libro “I Giudici senza toga” Giuffrè editore]. L’identità tra il “popolo” ed i “giudici” è fin dall’esperienza della polis ateniese un momento centrale nella vita delle prime comunità organizzate. Insomma, la sovranità popolare esprime e rappresenta la fonte primaria della potestà di “decidere” nel processo penale. “Si riannodano per questa via ad una antica radice, il diritto di voto ed il diritto di esercitare la iurisdictio …” [Così ancora Amodio].
Si è passati, nel tempo, dalla convinzione primitiva, oracolare ed irrazionale, riassunta nel brocardo vox populi vox dei che partoriva dei “verdetti” (veri-dictum) ad elaborazioni ed esperienze, varia- mente attuate nel tempo, tutte sempre orientate a non separare “il comune sentire” e “le attese di verità e giustizia” della società civile rispetto all’esigenza di affermare, comunque, l’autorità punitiva dello Stato.
Mettere insieme il tecnicismo giuridico ed il formalismo normativo di cui sono portatori i giudici togati con la spontaneità e la passione di soggetti laici ed atecnici (impreparati al processo ed ignoranti delle sue regole) è stato sempre compito arduo ed ha scatenato nel tempo ampi dibattiti tuttora vivi e vivaci.
La partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia con la “giuria” è stata vista da taluno ed in particolare dai cultori delle dottrine dello Stato liberale come “inconfondibile manifestazione di principi democratici” e diretto esercizio di sovranità popolare.
E proprio per motivi opposti a quelli del modello liberale dell’800 il regime fascista avrebbe di fatto depotenziato ed affossato l’istituto della partecipazione popolare alla amministrazione della giustizia con due interventi legislativi del 1923 e del 1926. Ma la verità storica non è mai così manichea. Alla faccia del garantismo predicato, nei fatti, la politica giudiziaria dello Stato liberale aveva vistose pecche, manipolazioni e forzature per cui la giuria popolare di fatto aveva solo un’autonomia di facciata.
Con il codice Rocco del 1931 venne inaugurato lo “scabinato” (collegio misto) invece della “giuria” (collegio autonomo), ma la competenza fu drasticamente ridotta.
Sulla base delle citate disposizioni (art. 101 e 102) della Costituzione del 1948, fu poi emanata la legge 10.04.1951 n. 287, variamente novellata nel tempo, con la quale si è disciplinata l’attuale partecipazione popolare nei giudizi di Assise.
La chiarezza del principio costituzionale secondo il quale la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia deve essere “diretta” (ovvero non filtrata da congegni elettorali o nomine variamente pensate e organizzate) ha imposto al legislatore ordinario la scelta dei giudici popolari, chiamati a rendere giustizia nella veste di cives titolari dell’elettorato politico attivo, senza necessità di alcuna caratteristica peculiare, né di alcuna competenza specifica, né tantomeno di minima preparazione tecnico-giuridica.
Nel nostro ordinamento, quindi, abbiamo dei veri e propri “giudici” popolari -non dei “giurati” come nell’esperienza anglosassone e americana. Questi ultimi decidono separatamente dal togato, solo sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato mentre i nostri giudici popolari sono chiamati alla pari con i giudici togati a decidere sia in ordine al fatto (colpevolezza o innocenza) sia in ordine a tutte le altre questioni di merito (entità della pena da infliggere compresa) e di rito che il processo im- pone di risolvere.
Va segnalato, peraltro, il dibattito nel quale è impegnata la dottrina più recente sia in ordine alla revisione dei metodi e dei congegni di reclutamento dei giudici popolari e di formazione delle relative liste, sia in ordine alla necessità di salvaguardare o meno l’autonomia decisionale e la parità di valore del “voto” in camera di consiglio da parte di soggetti inevitabilmente atecnici quali sono i giudici popolari.
Sul punto va segnalato un curioso e significativo fatto, mal sopportato dalla “componente togata”, ovvero che proprio la “componente laica” intervistata anonimamente sulla esperienza vissuta come giudice popolare ha espresso un “giudizio favorevole sull’attuale ripartizione tra giudici di carriera (2) e giudici laici (6) nonché sull’attribuzione ad entrambi in condizioni di parità decisionale, del potere di decidere sia sulle questioni di fatto sia su quelle di diritto” [Vedi Luigi Lanza “Gli omicidi in famiglia” – Giuffrè editore].
Solo una minoranza degli interpellati si è dichiarata favorevole alla creazione di una “giuria popolare” chiamata a decidere solo sul fatto (colpevolezza o innocenza) come nel sistema anglosassone e americano.
Un ultimo importante rilievo. L’art. 101 comma 2 della Costituzione recita: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Tale precetto vale -ovviamente- sia per i giudici togati sia per i giudici popolari delle Assise.
Ma è pur vero -come dicevamo- che, essendo la componente laica da un lato priva di specifiche competenze tecnico giuridiche e dall’altro assolutamente garantita nell’autonomia, libertà e parità del suo voto nel giudizio, decisivo e rilevante diventa il testo della formula del “giuramento” dei giudici popolari previsto dall’art. 30 della Legge n. 287 del 1951: “Con la ferma volontà di compiere da persona d’onore tutto il mio dovere, cosciente della suprema importanza morale e civile dell’ufficio che la legge mi affida, giuro di ascoltare con diligenza e di esaminare con serenità prove e ragioni dell’accusa e della difesa, di formare il mio intimo convincimento giudicando con rettitudine e imparzialità, e di tenere lontano dall’animo mio ogni sentimento di avversione e di favore, affinché la sentenza riesca quale la società deve attenderla: affermazione di verità e di giustizia.”.
Il legislatore costituzionale e ordinario, quindi, non si è preoccupato affatto della competenza tecnico- giuridica della componente laica, preferendo assicurare da un lato la “partecipazione diretta del popolo alla amministrazione della giustizia” e dell’altro la “affermazione di verità e di giustizia” affinché la sentenza riesca “quale la società deve attenderla”. Sentenza coerente con la legge, quindi, ma frutto della libera ed autonoma convinzione e valutazione di giudici che per la netta maggioranza (sei a due) non hanno alcuna conoscenza tecnico giuridica!
Si può dire che l’interesse alla affermazione di verità e di giustizia -pur nel rispetto della norma dettata dall’art. 101 comma 2 della Costituzione- alla fine potrebbe prevalere sull’interesse alla affermazione della astratta formale osservanza in punto di diritto delle norme da applicare visto che la Costituzione richiede la partecipazione diretta del popolo alla amministrazione della giustizia e che per la legge 287/1951 i giudici popolari (tecnicamente incompetenti) sono nettamente in maggioranza? L’interessante dibattito è aperto!
Alessio Morosin
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