Una società immobile
Dopo un’apparente apertura generata dal miracolo economico del secondo dopoguerra nel nostro Paese si è affermato un trend di progressivo irrigidimento delle gerarchie. Incrociando la classe occupazionale di partenza dei padri con quella raggiunta dai figli in virtù della propria attività lavorativa: gli spostamenti, perlopiù ascrivibili a mutamenti della struttura del mercato del lavoro, non sono tali da giustificare l’appellativo di “società aperta”, sia in ascesa che in discesa. Se si considera che i mutamenti di classe occupazionale tra padri e figli, quando verificatisi, avvengono principalmente in direzione di classi “contigue”, quella italiana si delinea come una società sostanzialmente immobile, caratterizzata da una scarsa permeabilità tra classi sociali. L’ascesa sociale appare quindi assai difficoltosa per quanti provengono da ceti medio-bassi; difficoltà che ulteriormente si aggrava qualora si restringa l’analisi alla sola popolazione femminile, il cui accesso alla classe borghese di vertice appare difficoltoso anche quando risulti essere la classe occupazionale paterna. L’immobilismo sociale è un fenomeno tanto più imponente quando più ci si allontana dal Nord per dirigersi verso il Sud del nostro Paese. I dati non fanno che confermare l’impressione diffusa di una società statica e scarsamente meritocratica, dove chi gode di posizioni di privilegio cerca in ogni modo di difendere quell’affermazione sociale che spesso viene percepita come un diritto acquisito a vantaggio proprio e della propria discendenza. (…) I figli di appartenenti alla classe media impiegatizia mantengono la medesima classe occupazionale paterna maggiormente al Sud (53,6% contro il 48,7% del Centro ed il 47,1% del Nord).