di Lodovico Pizzati
Riportiamo di seguito un articolo pubblicato oggi da noiseFromAmerika.org, in cui Lodovico Pizzati, che proprio oggi ha presentato la propria candidatura ufficiale a segretario di Indipendenza Veneta, propone una lettura controcorrente in merito all’attuale situazione economica della zona euro.
Lodovico Pizzati
L’euro è erroneamente visto come la causa della crisi mediterranea, e la politica monetaria estrema di uscire dall’euro è vista come la soluzione. Gli attuali problemi sono interamente dovuti a politiche fiscali sbagliate sia nel passato che nel presente. La soluzione sta in riforme di natura fiscale, anche se estreme.
Per giustificare il titolo basterebbe notare che durante questi 12 anni dell’euro i due paesi dell’eurozona che hanno perso meno quote di export nel totale mondiale sono proprio la Spagna e l’Italia. Ma la situazione è sempre più drastica, e il pessimismo crescente per l’Italia sta fomentando tra l’opinione pubblica ricette di politica economica sempre meno lucide. In parte questo è dovuto ad un gioco di credibilità che tenta di fuorviare le colpe ad elementi esterni (i subprime, gli speculatori, le banche, le agenzie di rating) per celare con il mantello dell’ottimismo le debolezze interne che sono alla vera base della crisi. In parte però i facili rimedi oggi in auge sono dovuti ad una confusione sulle dinamiche della crisi e sulla differenza tra politiche fiscali e monetarie. Così, il capro espiatorio dell’attuale caccia alle streghe è diventato l’euro, che viene sempre più di frequente additato, se non addirittura come colpevole della crisi, perlomeno come elemento che deve per forza saltare perché l’economia si riprenda.
Ci sono almeno tre luoghi comuni sull’euro. Il primo riguarda la convinzione che la politica monetaria può funzionare solo se sotto il diretto controllo dei governi di ogni stato. Qui si potrebbe aprire un vaso di Pandora sia di convinzioni errate (tipo che la BCE sarebbe un istituto privato), sia di argomenti discutibili (tipo se è proprio necessaria la moneta unica). A prescindere si sta sbagliando bersaglio, perché la politica monetaria con l’attuale crisi c’entra poco. Intanto la BCE ha comunque tentato il possibile, dati i limiti della politica monetaria. Il fatto è che una banca centrale, anche se praticatasse il rimedio estremo di stampar moneta a manetta, non creerebbe ricchezza e non stimolerebbe la crescita. Avere più euro in circolazione, o lire e dracme, non affronta per niente il vero problema di questa crisi. Il problema odierno è di debito pubblico (l’accumulo di decenni di politica fiscale sbagliata), di poca crescita (dovuta ad una politica fiscale sbagliata), e di un mercato finanziario che considera sempre più rischioso fare credito a certi stati che perseverano in questa politica fiscale sbagliata.
Il secondo luogo comune considera il peccato originale nel cambio euro-lira sbagliato in partenza che ha causato un decennio intero di crescita anemica per l’Italia. Intanto quel cambio era stabilito dalle forze di mercato e ci si dimentica che il cambio di quasi 2000 lire per euro era dovuto anche al fatto che lo stato italiano aveva anche allora un enorme debito pubblico (dovuto a decenni di politica fiscale sbagliata). I 2,5 milioni di miliardi di lire di debito nel 1999 sono diventati “solo” 1300 miliardi di euro, anziché 2500 miliardi di euro se il cambio fosse stato, per fare un esempio, 1000 lire per euro. L’unica cosa che l’entrata in vigore dell’euro ha causato è stato il privare lo stato italiano della valvola di sfogo della svalutazione come rattoppo per una politica fiscale perdente. L’euro ha costretto lo stato italiano a guardare in faccia i propri problemi strutturali privandolo della scorciatoia della svalutazione, cosa che comunque non sarebbe stata concessa all’infinito in un mercato unico come quello europeo. Quindi anche qui il problema non è l’euro, ma la politica fiscale italiana che fa lentamente perdere competitività e crescita alla propria economia.
Il terzo luogo comune riguarda l’inevitabile uscita dall’euro “per evitare il default” della Grecia o dell’Italia. Un eventuale default e la permanenza della Grecia e dell’Italia nell’euro sono due cose separate. Dal punto di vista degli altri paesi europei, l’unica conseguenza avversa per loro sarebbe se la BCE decidesse di monetizzare il debito greco e italiano. Questo spalmerebbe il peso del debito pubblico greco e italiano a tutta l’Europa tramite un euro svalutato e più inflazione per tutti. In assenza di questa politica monetaria europea non c’è alcun motivo nel credere che l’uscita dall’euro avvenga per “espulsione”. Dal punto di vista del paese in difficoltà (Grecia o Italia), si può discutere se far parte dell’euro convenga o no, ma questo non è pertinente con la crisi attuale. Uscire dall’euro servirebbe a ripagare i propri creditori (i detentori dei titoli di stato) in dracme o in lire svalutate. Che differenza fa ripagare i propri debiti in lire svalutate piuttosto che rimanere nell’euro e dichiarare un default parziale? Nessuna, perché in ambedue i casi il creditore rimane fregato e si perde di credibilità avendo più difficoltà a trovare chi finanzia il proprio deficit pubblico in futuro.
In conclusione pensare che l’euro sia colpevole dell’attuale crisi, o addirittura credere che si possa venirne fuori tramite una politica monetaria disperata (tipo l’uscita dall’euro) è sbagliato. È come bombardare l’Iraq in risposta all’attacco alle torri gemelle: c’entra poco o nulla. Magari si vuole fare per altre ragioni, ma con la crisi attuale l’euro proprio non c’entra. Quello che c’entra non è appunto la politica monetaria, ma bensì la politica fiscale dei paesi in maggior difficoltà.
È vero che l’attuale crisi ha le sue radici in uno shock esterno. La crisi finanziaria del 2008 e 2009 non è nata in Italia o in Grecia, ma l’atrofizzarsi dell’economia globale ha ridotto le entrate fiscali per tutti i paesi, e gli stati fiscalmente più deboli, e cioè con un debito pubblico maggiore, si sono trovati in prima linea. Quando arriva un’epidemia sono i più deboli di salute a lasciarci le penne, anche se i più avveduti al proprio stato fisico. L’economia italiana oggi paga i decenni di indebitamento dello stato italiano. Una politica fiscale che ha speso addirittura di più di quanto tassava, drogando temporaneamente la crescita con una spesa pubblica eccessiva, e con investimenti pubblici che evidentemente non hanno lasciato traccia come maggiore crescita. Esistono purtroppo ancora troppi dinosauri che nel 2012 credono ancora che la ricetta della ripresa stia nelle opere pubbliche. In parte sbagliano nel credere che la perdita di competitività sia dovuta ad una mancanza di infrastrutture rispetto ad altri paesi europei, perché sono ben altre le ragioni che inducono le nostre imprese a chiudere. In parte ignorano totalmente il vincolo di bilancio, perché la spesa pubblica la devi finanziare o con ulteriore indebitamento (e siamo arrivati al capolinea per il debito pubblico) o sottraendo risorse tramite ulteriori tasse (e siamo arrivati al capolinea anche qui) agli stessi cittadini che vorresti stimolare con una spesa pubblica.
La zavorra del debito pubblico l’abbiamo comunque ereditata, ma anche la politica fiscale attuata nell’ultimo anno lascia a desiderare perché si basa sul mantra “prima il rigore fiscale e poi la crescita” che ignora il banale fatto che il rigore fiscale basato su ulteriori tasse (IMU, IVA, ecc…) fa a pugni con gli stimoli per la crescita. L’attuale governo sta attuando una politica da contabili miopi svolta a far cassa oggi e che, o sottovaluta il peggioramento che causerà per il Pil, oppure spera che il Pil si riprenda in maniera esogena grazie alla ripresa dell’economia globale. Qui non si tiene conto che con la globalizzazione una ripresa della locomotiva tedesca non ha lo stesso impatto sull’economia italiana come vent’anni fa, perché la competizione si è fatta globale e l’industria italiana ha perso di competitività a causa di un problema strutturale che sta alla base di tutto.
I timidi tentativi di riforma del mercato del lavoro, delle privatizzazioni, o la recente promessa di ripagare i debiti che lo stato ha verso le imprese aiutano solo in maniera marginale. Se non si tocca il vero problema di competitività che ha l’Italia e che ormai ha messo in ginocchio troppe imprese uno scenario greco sarà alle porte. Il problema che l’economia italiana subisce è di natura fiscale, ed è sempre quello. Parte dell’Italia è soffocata da una pressione fiscale insopportabile che non viene minimamente bilanciata da altrettanti servizi pubblici come potrebbe essere in un’economia scandinava. I residui fiscali delle regioni settentrionali parlano da soli, dove la differenza tra tasse pagate e servizi pubblici ricevuti è a livelli di colonialismo. Non è possibile competere in una economia globale con uno svantaggio simile. Queste risorse sono poi redistribuite in maniera disastrosa, finanziando il sottosviluppo delle regioni meridionali anziché la crescita.
La vera riforma deve essere fatta alla radice di questo problema, e subito. Il primo passo da fare immediatamente è simbolico ma aiuterebbe guadagnare credibilità verso i mercati finanziari. È ridicolo che lo stato più indebitato d’Euorpa abbia una classe dirigente (i parlamentari) che vengono pagati tre volte tanto la media dei loro colleghi europei. Solo riportando immediatamente gli stipendi in media europea si risparmierebbero 100 mila euro per parlamentare all’anno. 100 milioni di euro risparmiati ridimensionando il migliaio di parlamentari, 100 milioni di euro facendo altrettanto con il migliaio di consiglieri regionali strapagati, e si potrebbe arrivare tranquillamente ad 1 miliardo operando sulle migliaia di pensioni d’oro e privilegi. Una manovra di un miliardo può sembrar poco ed insignificante, ma è inacettabile risquotere 10 miliardi a milioni di cittadini con l’IMU quando la classe dirigente assomiglia all’aristocrazia francese di fine ‘700.
Il secondo passo è la vera riforma: un’immediata struttura federale, non quella centralista della Lega, ma una vera struttura federale dove ogni regione trattiene la totalità delle proprie risorse e ha la piena libertà di politica fiscale (per abbassare le tasse) come avviene nei veri sistemi federali. Questo permetterebbe di eliminare le inefficienze abissali nelle regioni abituate all’assistenzialismo, e consentirebbe alle altre regioni di praticare una politica fiscale adatta per poter permettere con il resto d’Europa e del mondo. Il problema del debito pubblico? Dovrà essere ripartito per regioni, anche se questo con tutta probabilità si tramuterà, in alcuni casi, in potenziale default.
Se questa riforma non avviene dal parlamento di uno stato che si è dimostrato irriformabile, ricordiamoci che uno stato altro non è che un ente che offre un servizio (pubblico) in cambio di un prezzo (tasse). Se questo ente si rivela obsoleto e inefficiente, si ristruttura anche smantellandolo come si fa per le grosse imprese.
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